Io ho Ragione. Tu hai Torto

Internet è un luogo strano.

Al centro del mio lavoro c’è il modo in cui le persone comunicano tra di loro, e devo dire che questa enorme piazza, suscita in me un’attrazione particolare. Da una parte perché permette di accorciare distanze altrimenti lunghissime, dall’altra parte però, perché talvolta allunga delle distanze altrimenti molto brevi.

Non passa giorno senza che osservi come, sui social network, le persone non abbiano paura a dar voce ad opinioni spesso anche molto personali, quando non addirittura intime, e questa di per sé è una cosa bellissima, che tratteggia un mondo in cui la libertà di espressione non è più solo un’utopia.

D’altra parte, tuttavia, ci offre il ritratto grottesco di una società in cui le persone non hanno paura a calpestare, in nome di quella stessa libertà di pensiero, le opinioni delle altre persone, arrivando spesso all’insulto vero e proprio verso chi la pensa diversamente.

Insomma, io ho ragione. Tu hai torto.

Ciascuno di noi vive e agisce in base alle proprie Credenze, cioè alla rappresentazione della realtà che esiste nella nostra mente. Insomma, se vista la mia esperienza di professionista ad esempio, considero l’Inbound Marketing come la forma più efficace di marketing, ciò mi porta a comunicare questa mia convinzione come vera. E se qualcuno la pensa diversamente, io mi sento in diritto di spiegargli perché si sbaglia, e io, invece, ho ragione.

E di per sé non c’è nulla di male in questo. Gli esseri umani l’hanno fatto per millenni, nonostante quelli che vengono riconosciuti più carismatici, o comunque grandi comunicatori, di solito sono stati in grado di mettere da parte le proprie credenze, per accogliere quelle altrui. Già Zenone, ad esempio, diceva che la ragione per cui abbiamo due orecchie e una bocca è che dobbiamo ascoltare di più, e parlare di meno.

Ma la mia citazione preferita in assoluto è quella di Wittgenstein: “Le parole sono pallottole”. Uso spesso queste parole durante le lezioni in cui parlo di comunicazione, perché è una metafora fortissima per far capire che è come se ciascuno di noi avesse una pistola carica. Se questa pistola non la sappiamo usare, le pallottole colpiranno il loro bersaglio solo per caso, mentre sarà molto più facile che lo manchino, e in alcuni casi potranno persino danneggiare chi ci circonda. Solo imparando ad usare quella pistola, diventeremo davvero responsabili degli effetti delle pallottole che spariamo.

La conseguenza paradossale che vediamo oggi, quindi, è che Internet ha amplificato la portata della pistola, che ciascuno di noi porta con sé, dandoci la possibilità di colpire contemporaneamente innumerevoli bersagli a enormi distanze.

Ma se quella pistola non la sappiamo usare, l’unica cosa che è stata amplificata, diventa la nostra capacità di danneggiare il prossimo.

Ci stupiamo, perciò, quando i media ci rappresentano un mondo in cui le nuove generazioni non sono capaci di costruire relazioni stabili. Sono appiattite nella loro ricerca della notorietà effimera che Internet ci regala, dimenticandosi delle cose davvero importanti.

Ma possiamo davvero stupirci?

Io, che nel mio piccolo insegno alle persone a usarla, quella pistola, mi rendo conto che l’impresa è titanica. Ma per fortuna, almeno, chi impara a sparare i proiettili che poi sono le parole, impara anche a difendersi da quelli degli altri.

Un po’ come Robin Hood, che era capace di colpire una freccia in volo, per ridirezionarla sul suo bersaglio. Ecco, nel mio piccolo mi piace pensare di aiutare le persone a fare proprio questo.

Nessuno ha voglia di Cambiare

Qualche giorno fa stavo tenendo una lezione sul Problem Solving in un’aula, e una dei partecipanti mi ha fatto una domanda che avevo già sentito diverse volte.

“Ma se il problema è stato causato da qualcun altro, perché devo essere io a gestirlo?”

Credo che la domanda in questione rappresenti uno dei principali punti di scontro di chi si affacci a queste tematiche la prima volta.

La risposta, in effetti, è semplice. Un problema non è mai oggettivo, ma una situazione diventa problematica per noi quando tutto quello che abbiamo, o non abbiamo fatto (o anche solo pensato) fino a questo momento per provare a risolverla non ha funzionato. E quindi, se una situazione è un problema per noi, significa che siamo noi che stiamo facendo qualcosa di sbagliato (e questo è il concetto strategico di tentata soluzione).

Davvero, la faccenda non è più complessa di così.

Ma perché, allora, è così difficile assumersi la responsabilità dei nostri problemi? Probabilmente anche solo perché cambiare è difficile. E il nostro cervello, che è notoriamente un gran pigrone, non fa altro che scaricare sugli altri la responsabilità del problema. Che siano gli altri, insomma, a farci qualcosa. Io, tutto sommato, cosa ci posso fare?

Questo concetto viene descritto in psicologia utilizzando una parola che proviene dal mondo della biologia, e che personalmente apprezzo moltissimo: omeostasi. Definita come la caratteristica di un sistema di adattarsi in una situazione di equilibrio, per quanto disfunzionale, piuttosto che cambiare. E quando il cambiamento avviene, questo porterà comunque a costruire un nuovo equilibrio.

Insomma, hai presenti tutte quelle frasi che mandano in bestia un po’ tutti?

  • qui abbiamo sempre fatto così;
  • meglio un uovo oggi che una gallina domani;
  • no’ stà a tocàr (non toccare quello che funziona);
  • questa non è una mia responsabilità;
  • è colpa sua;
  • a questo ci pensiamo in un altro momento.

Insomma, tutte quelle espressioni che in un modo o nell’altro ci fanno scivolare nell’inattività, nel desiderio di non voler affrontare le situazioni problematiche.

Ma state tranquilli, non ne abbiamo colpa. Siamo tutti fatti così. Tutti facciamo fatica a cambiare. A nessuno piace uscire dalla comfort zone. Possiamo dirlo un po’ in tutte le salse.

Ed è per questo che poi in tanti parlano di Problem Solving. In tanti fanno i corsi, e sono anche bravi ad applicare i modelli. Poi, però, quelli che ci riescono davvero, dico nella vita di tutti i giorni, sono pochissimi.

Perché risolvere i propri problemi significa, in fin dei conti, assumersi la responsabilità, ed essere disposti a fare qualcosa di diverso.

E tu in che categoria rientri? Quella di chi cambia, o quella di chi ha problemi?

Avete rotto a parlare di leadership

Non ho avuto molti capi nella vita. Quei pochi, però, erano abbastanza incompetenti. Sono abbastanza crudo nel descrivere la situazione, me ne rendo conto, ma non ha senso girarci troppo intorno.

Abitando in Veneto i miei capi sono stati principalmente titolari d’azienda che avevano avuto un moderato successo grazie ad una buona parlantina e alcune circostanze fortuite, ma soprattutto allo sfruttamento sistematico dei pochi dipendenti che erano riusciti a trattenere fino a quel momento. Perché si sa, il lavoro è scarso, e quindi le persone pur di lavorare si accontentano.

La mia è un’esperienza aneddotica, ma secondo molte statistiche è abbastanza comune: una percentuale assolutamente maggioritaria delle persone è disposta a prendere in considerazione l’idea di cambiare lavoro principalmente a causa del proprio capo.

Perché non hanno una buona relazione. Perché non lo rispettano. Perché non li valorizza. Il motivo preciso, in realtà, è irrilevante. Il punto è che lì fuori ci sono una marea di pessimi leader.

Il che è paradossale, se ci si pensa. Quante persone, lì fuori, si occupano di leadership? Se si guarda Harvard Business Review ci sono un’infinità di articoli su come fare meglio il leader. Se si ascolta qualunque podcast, o si legge qualunque rivista che parla di azienda l’argomento è sempre dei predominanti. E poi ci sono i coach, i consulenti, i formatori che si occupano di migliorare la leadership di tutti questi pessimi capi.

Lasciatemelo dire. Avete rotto a parlare di leadership.

Tutti qui a parlare di carisma. Di coaching leader. Di though leader. Di happyness manager. Ma non è che ci stiamo dimenticando le cose davvero importanti? Tipo le relazioni. La buona comunicazione. Ma anche la buona delega, che sta alla base del meccanismo stesso di leadership.

Mi capita spesso di parlare con imprenditori e manager che hanno provato tutto. Ma nonostante questo c’è questo o quell’altro dipendente poco produttivo. Quello che non funziona bene nel suo ruolo. Quello che guarda, appena l’ho assunto a tempo indeterminato la sua produttività è calata drasticamente.

E alla fine tutti si continua ad applicare sempre uno stesso stile di comando. C’è quello molto autoritario, e c’è quello che cerca di essere democratico, l’amico. C’è chi si prende, sinceramente, a cuore gli interessi dei dipendenti, anche troppo. E c’è chi hai fatto bene, ma perché non hai fatto meglio?

Alla fine siamo qui, in intimità, e possiamo dircelo. Basta ascoltare quelli che parlano di leadership. Di come ci si deve comportare per essere tutti felici e produttivi. E iniziamo a pensare agli obiettivi aziendali, che è meglio.

Insomma, non stupirti se, qualora volessi coinvolgermi in una consulenza non ti parlerò di coaching o di felicità, ma di obiettivi aziendali. Perché, per me, leadership vuol dire semplicemente questo.

E in fondo non ti preoccupare, se cerchi di adottare un modello di leadership specifico, alla fine andrà malissimo. E lo so, perché tra la mia famiglia e le aziende che ho visitato, ho avuto modo di vedere come tutto può, davvero, andare male!

E ricorda. Come ci dice la saggezza popolare, il pesce puzza sempre dalla testa.

Una Vita da Pigro

Quando mi presento spesso mi definisco un Pigro. Considero questa come una delle mie più grandi virtù, ma me la sono dovuta sudare. Per questo motivo desidero dedicare la storia di questa settimana, la mia prima Storia, al tortuoso percorso che mi ha portato a essere quello che sono: un pigro cronico, uno che se ne vanta anche.

Il mondo ama gli stakanovisti. Siamo circondati di persone che entrano presto ed escono tardi dagli uffici. Anche quando andiamo in vacanza tutto deve essere organizzato al minuto, per darci l’impressione che non stiamo perdendo tempo. Solo a pensarci mi si agitano le dita, e mi viene da scrivere più velocemente.

Ma aspetta, prendo fiato. Riprendo con calma.

Chi me lo fa fare? Io da sempre sono un pigro. Uno che non ha paura a stare orizzontale sul divano, accompagnato da un morbido senso di noia, ad ascoltare il suono del mio cervello che gira. A leggere un libro. A guardare un film. A lasciare che il tempo scorra senza che io faccia qualcosa per aiutarlo.

Ma in un mondo che corre, come sopravvive uno che si ferma a guardare il paesaggio?

Bill Gates diceva Sceglierò sempre un Pigro per fare un lavoro difficile, perché lui troverà il modo più facile per farlo e alla fine il senso è tutto qui. Se sei un pigro devi essere un pigro intelligente. Perché se sei un idiota non combinerai mai niente.

Devi saper ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

Per raggiungere i suoi obiettivi il pigro non vuole fare fatica, e quindi deve trovare lo stratagemma vincente. Perché essere pigri è una strada in salita, ma per fortuna che ci sono le automobili a fare fatica per noi.

E io la fatica non ho mai amato farla. Forse proprio per questo mi sono appassionato molto presto a temi che riguardavano la produttività, ma anche solo il pensiero laterale, e il problem solving non ordinario. Mi ha sempre affascinato l’idea che esista un modo per raggiungere grandi risultati facendo poca fatica. Un esempio concreto lo sto vivendo proprio in questo istante: l’attività della scrittura di per sé è faticosa, ma la considero anche piacevole. Ed è proprio per questo motivo che, nel corso del tempo, ho valorizzato tutto ciò che la rendeva un piacere, ed escluso tutto quello che poteva renderla nuovamente faticosa. In un certo modo, è proprio per questo motivo che ho deciso di scrivere solo per me, e non anche per gli altri: se lo faccio per altre persone è lavoro, non più piacere.

L’attività, certo, è la stessa, ma uno deve essere in grado di ingannare se stesso nel modo che funziona meglio per lui!

Per lo stesso motivo, quando faccio una cosa deve essere fatta nel miglior modo possibile fin da subito. Ci sono quelli che continuano a mettere pezze su problemi che il giorno successivo torneranno esattamente nello stesso modo. Io non sono mai riuscito a essere così, e forse è uno dei motivi per cui non riesco a lavorare come dipendente: tutta quella mentalità in cui non si possono affrontare i problemi che si riscontrano perché Il tuo capo ha altre priorità semplicemente non mi va giù. Invece, come consulente di problem solving posso inchiodare molto velocemente le persone alle proprie responsabilità e all’azione!

Poca spesa, massima resa si dice dalle mie parti.

Perché alla fine, e questo è il messaggio che voglio mandarti: la pigrizia, così come qualunque altro tratto caratteriale non è per forza un vizio, ma qualcosa che si può scegliere se subire, oppure valorizzare. Anche se nella società contemporanea non è facile. Perché come diceva Wilde, il non fare nulla è la cosa più difficile del mondo.

Il Significato della Felicità

Cosa significa essere Felice? Dal punto di vista chimico, la felicità è una combinazione di ormoni normalmente secreti dal nostro organismo. In questo senso, la felicità non è che un’emozione transitoria, uno stato mentale temporaneo. Ecco perché più che essere felici, noi possiamo cercare la felicità ogni giorno. Sempre che vogliamo farlo. Personalmente, cerco sempre di moderarmi, anche da questo punto di vista.

Tolleranza

Oggi si parla molto di tolleranza. Di accettazione. Di integrazione. Non solo nei TG nazionali, parlando dei flussi di migrazione, ma anche nelle aziende. Nelle famiglie.

Tolleranza, a ben vedere, non è proprio una bellissima parola. Tollerare qualcuno significa, anche dal punto di vista etimologico, sopportare un peso. E se sono le parole che costruiscono la nostra realtà, dovremmo smettere di tollerare le persone che ci stanno intorno, e iniziare a comprenderle. A guardare la realtà attraverso i loro occhi.

Vedi mai che questo ci dia delle nuove prospettive anche sulla nostra realtà.

Multipotenziale

Quando ho visto il video di Emilie Wapnick sui Multipotenziali, un paio d’anni fa, sono riuscito finalmente a dare un nome a una caratteristica che fino a quel momento avevo chiamato incostanza o incoerenza. Non che consideri la Coerenza una di quelle doti da perseguire ad ogni costo, ma mi ha fatto capire che il modo in cui affronto ciò che la società considera difetti dipende, in larga misura, da me.

Invecchiare

Oggi, ufficialmente, invecchio. Invecchio tutto d’un colpo, perché cambio decina, ma a parte cantarmi Tanti Auguri da solo, questo è davvero un giorno come un altro. Perché alla fine non importa quanto, o come invecchi, ma cosa stai facendo adesso.

Solitudine

Ci sono molte persone, lì fuori, che hanno paura della solitudine. Odiano sentirsi abbandonate. Provano ansia nel non avere interazioni. Per me, in effetti, è l’esatto opposto. Certo, non disdegno la compagnia, ma nel posto in cui mi trovo a mio agio è buio, e mi trovo da solo.

Automobile

Non amo più di tanto guidare, ma con il lavoro che faccio è in qualche modo inevitabile. Sei sempre in viaggio, ad ascoltare persone, a parlare con persone, a costruire relazioni.

In un certo senso, la mia auto è l’ufficio che non ho. Ma anche un luogo di solitudine, e tranquillità.