Ebbene sì, ho mentito

Ogni giorno mi capita di avere quelle due o tre chiacchierate con persone di lavoro.

Possono essere potenziali clienti, o persone con cui sto valutando una collaborazione, o anche solo persone interessanti conosciute su LinkedIn, e con cui vale la pena scambiare qualche idea. Amo fare queste conversazioni: per me sono un enorme piacere.

Spesso, infatti, si sottovaluta questa dimensione relazionale dei Social Network. Il termine che va in voga oggi è social selling, il concetto è che per vendere qualcosa attraverso i social devi prima costruirci un minimo di relazione, e se lo chiedi a me, si poteva fare di meglio.

Molto ma molto meglio. Insomma, non è che ogni volta che scrivo un messaggio a qualcuno voglio vendergli qualcosa.

Ma non è questo il punto. Dopo aver studiato la Pragmatica della Comunicazione Umana, di Watzlawick, mi sono reso conto, infatti, che non importa quanto siamo bravi a produrre contenuti efficaci, o brillanti nelle nostre comunicazioni testuali: tanto più la nostra comunicazione è fisica, quanto più essa è efficace. Insomma, LinkedIn non serve a nulla se poi con quelle persone non parlo al telefono, o, ancora meglio, non le incontro di persona.

Insomma, tutta questa introduzione solo per dire che amo parlare con le persone.

Adesso è il punto dove ammetto che non sono sempre sincero.

Sì, lo so, i puristi del Personal Branding diranno che bisogna essere integri, altrimenti si rischia di rovinare tutto subito. Bisogna essere autentici. Per favore, fatemi il piacere. Siete i primi che danno quell’immagine patinata, priva di errori, in cui i propri clienti sono perfettamente soddisfatti. E non venite a raccontarmi che al limite omettete qualche particolare, perché una mezza verità non è diversa da una bugia. La differenza tra voi è me è che lo faccio apertamente. Anzi, le mie menzogne sono parte del mio Personal Brand, e voi potete serenamente attaccarvi!

Siamo sinceri, tutti mentiamo, e lo faccio anche io. Mi capita di mentire su quanti clienti sto gestendo al momento, su quante collaborazioni ho aperte, e sì, anche sulle mie competenze. Flash news: se voglio acquisire esperienza in un campo come consulente, devo raccontare di saperla fare quella cosa. Se non la so fare, devo acquisire esperienza. E non sempre sono in condizioni di farlo in autonomia. Il che significa che devo usare il mio cliente come banco di prova.

Ebbene sì, nel farlo mi assumo un rischio: quello che lui sia insoddisfatto. D’altra parte, sta a me saper gestire in ogni momento le sue aspettative. Una volta preferivo lavorare gratuitamente per acquisire esperienza, e fallivo molto di più. Dal mio punto di vista, se lavoro gratuitamente, il mio cliente non mi prende abbastanza sul serio, e quindi il progetto è destinato a fallire per definizione. Oggi preferisco raccontare che sono già un esperto, che le competenze le ho tutte. Ma non è vero. Ovvio, studio come un cane per raggiungere l’obiettivo, e metto in campo anche più carte del necessario. Ma se alla fine riesco, e il mio cliente è soddisfatto, io ci ho guadagnato, e anche lui.

Fake it till you make it, dicono negli USA. Non posso dire di sposare appieno questa filosofia, probabilmente perché non sento di arrivare mai al make it: so di avere sempre margine di miglioramento. Ed è per questo che a un certo punto queste menzogne diventano la mia verità. Ogni tanto capita quello che mi dice che non capisce mai quando mento o quando dico la verità.

In effetti, rispondo, non lo so nemmeno io.

Insomma, se abbiamo parlato probabilmente ti ho mentito. Ma non avertela a male per questo. Infatti, quello che dico sempre è che non devi fidarti di me. Non ha senso che tu lo faccia. Puoi solo mettermi alla prova, e vedere come va.

Non sono un buon dipendente

Quando mi sono affacciato al mondo del lavoro, l’ho fatto con un imprinting di un certo tipo.

All’epoca studiavo all’università, e avevo bisogno di fare un po’ di cassa per potermi pagare le serate fuori con i compagni di corso, e con la ragazza di allora. Però avevo i corsi da frequentare, e per cui dovevo studiare. La scelta, per me, fu in qualche modo scontata: lavorare come dipendente, con gli orari rigidi e tutto non avrebbe mai funzionato, quindi aprii la mia brava partita IVA, e iniziai a vendermi per quelle tre o quattro cose che sapevo fare, legate al marketing.

Avrei potuto fare quello che facevano molti compagni di corso: trovare lavoro come cameriere in un bar, avendo quindi la sera e magari i weekend impegnati. Ma d’altra parte, ero uno che i weekend voleva uscire, non lavorare (sì, sono sempre stato uno di quelli, decisamente poco motivato in tutta quella roba della gavetta). E dopotutto, se avevo delle competenze interessanti per il mercato, perché non vendere quelle, piuttosto che tentare di far stare in equilibrio troppi bicchieri su di un vassoio, considerando anche la mia scarsa coordinazione occhio-mano?

Insomma, avviare la carriera da consulente sembrava la cosa più sensata da fare, visto anche il regime fiscale iper-agevolato che esisteva all’epoca. E così feci. E all’inizio fu un disastro, naturalmente, ma lavoravo per amici, e amici di amici, quindi andava bene così. Loro furono abbastanza generosi da concedermi di far pratica sulle loro spalle, e io, in qualche modo, imparai non solo tutti gli aspetti tecnici legati alla professione che stavo svolgendo, ma anche quelli comunicativi e relazionali. Insomma, come si parla con un cliente, come si negozia un preventivo, come si gestiscono le obiezioni. Le solite cose.

Avanti veloce di qualche anno, succedono tre cose insieme che danno un blocco importante al mio lavoro: mi laureo, ristrutturo casa, e mi sposo, a distanza di pochi mesi. E coinvolgendo il periodo che va dall’inizio dell’anno all’estate, capita che sono, in maniera del tutto prevedibile, senza nuovi clienti.

Questo è il momento in cui mi trovo neo-marito, ad essere totalmente disoccupato, e senza nemmeno diritto alla NASPI, perché tecnicamente ho una partita IVA, e l’ultima fattura l’ho staccata da meno di un anno. Ecco, quindi, che inizia la disperata ricerca di qualcosa, un qualcosa che ci permetta di vivere senza dover dipendere dai nostri genitori. E così cerco clienti, ma invio anche curriculum. Perché ormai sono laureato, peraltro in International Management, che fa figo solo a dirlo.

Non farò fatica a trovare lavoro, giusto?

Sbagliato, in effetti. Mi rendo presto conto di quanto le offerte per posizioni compatibili con il mio profilo siano in numero irrilevante, spesso richiedano molta più esperienza di quanta non ne abbia, e comunque non siano mai calzate in modo ideale.

Poi eccola, l’offerta perfetta. Mi candido. Nel giro di pochi giorni faccio il colloquio. Vengo inserito subito in azienda.

I titolari mi portano in giro dai clienti, mi fanno partecipare a progetti. Sembra un sogno che si realizza. Solo dopo qualche mese, il sogno inizia ad incrinarsi. L’azienda inizia a chiedere sempre di più degli straordinari, senza pagarli. Le trasferte sono lunghe ed estenuanti. Tutta la gestione dell’azienda è in stato di emergenza costante, e non c’è nessun responsabile che si assuma alcun tipo di responsabilità. Nel giro di poche settimane passo da entusiasta, a sono alla ricerca passiva di un lavoro, a sono in ricerca attiva di lavoro, a devo scappare da qui il prima possibile.

Nel frattempo continuo a formarmi, e mi iscrivo al corso che nel giro di un paio d’anni mi avrebbe cambiato la vita, facendomi definitivamente appassionare al mondo della Comunicazione e del Problem Solving.

Alla fine trovo un’azienda alternativa, e do le dimissioni. Esco male dall’azienda, brucio dei ponti, ma tutto sommato non mi disturba più di tanto. Nella nuova azienda ho un ruolo di Responsabile Marketing. Sembra figo, ma dopo pochi mesi capisco che quel ruolo di Responsabile si può tradurre in scaricabarile. Scopro che l’azienda è in rosso da anni, e non ha intenzione di investire due centesimi in marketing oltre al mio stipendio. Mi trovo a subire la responsabilità di un processo di marketing che non funziona, senza poter far nulla per cambiarlo. Il tutto, condito da un consulente fiscale truffatore/tuttologo, che oltre a dirmi come devo fare il mio lavoro, sta spingendo sempre di più l’azienda nel baratro.

Io, naturalmente, non me ne sto fermo, e cerco nuove opportunità. Quando il contratto con l’azienda si chiude senza essere rinnovato, mando a quel paese tutti, e riapro partita IVA.

Potrei dire di essere stato sfortunato, di aver trovato solo le aziende sbagliate con cui collaborare, e probabilmente avrei ragione. In realtà, queste esperienze mi hanno permesso di capire che io, come dipendente, non funziono.

La parola stessa dipendente non funziona per me. Se io dipendo da qualcuno, devo subire il bello e il cattivo tempo. Può capitarmi l’azienda dei balocchi, ma anche il mio peggior incubo. Se iniziassi a pensare a me stesso come dipendente, perderei tutto ciò che mi appassiona del mio lavoro: la spinta creativa, la curiosità, la crescita; il tutto per limitarmi a dipendere dalle decisioni da qualcun altro. Diventerei non diverso dai robot che molto presto, dicono, ruberanno il lavoro a tutti noi.

Ecco perché scelgo di essere collaboratore. La partita IVA, in effetti, è un fattore incidentale: non rinuncerei a un bel contratto a tempo indeterminato, se l’azienda fosse disposta a negoziare con me le giuste condizioni. Scelgo di collaborare, perché rispetto ai miei clienti sono uno che collabora, non dipende. Sono uno che aiuta a raggiungere risultati, non un ingranaggio da oliare e far girare alla più alta velocità possibile.

Insomma, dicono che noi Millennials siamo dei precari cronici, gente che non è capace di trovare un lavoro e di tenerselo. Io, qui, parlo per me, ma dico che per un po’ di soddisfazione, un po’ di tempo di qualità con mia figlia e mia moglie, e un po’ di sana felicità, di quel ruolo da dipendente faccio volentieri a meno, e lo lascio alle generazioni passate, perché chissà se quelle future lo vorranno ancora.

Il treno delle 5:37 per Roma

Non mi piace dormire fuori casa, la notte.

Tutte le sere, mia figlia si addormenta con me, ed è una cosa a cui tengo molto. Me la sto godendo davvero. Ne ho parlato con mia moglie, e per il prossimo periodo cercherò il più possibile di evitare trasferte di più di un giorno nel lavoro.

Il che significa che, in generale, preferisco lavorare con clienti più vicini. Poi però ti capita quel progetto, quello bello davvero, a Roma, e che paga il giusto. Quel progetto a cui non vuoi rinunciare. E allora lo prendi.

Parte della negoziazione progettuale ha riguardato gli orari. La giornata per me in azienda inizia alle 10, significa che ho tutto il tempo di arrivare, se prendo il treno delle 5:37 da Mestre.

Il treno delle 5:37.

Per prendere il treno delle 5:37 dalla stazione devo prendere l’autobus delle 4:50 da casa. Quello dopo è alle 5:20, e arriverebbe in stazione alle 5:34, in teoria. Il margine è troppo poco, devo muovermi con mezz’ora di anticipo.

La mia sveglia, quando vado a Roma, è alle 4.

La sveglia delle 4 ti proietta in un mondo onirico, in cui non sei sicuro se dormi o sei sveglio. Se esisti o meno. Le 4 è, potenzialmente, l’ora in cui andrei a letto se seguissi davvero il mio ritmo circadiano.

Quando devo svegliarmi alle 4 dormo in un’altra stanza. Un materasso appoggiato sul pavimento, e con delle coperte sopra. Quando mi alzo, sono tutto indolenzito, ammaccato, quasi come se avessi dormito direttamente sul pavimento in gres porcellanato. La moka l’ho messa su la sera prima, perché con la sveglia alle 4 mi manca la coordinazione occhio-mano necessaria per prepararla. Con gesti lenti e assonnati mi preparo. Mia moglie, nel frattempo, si sveglia, mi augura buon viaggio, poi torna a letto.

L’autobus delle 4:50 è pieno. È la prima corsa della giornata, riempita dal popolo della notte. Ormai, tra di loro si conoscono, chiacchierano sommessamente in piccoli gruppi. Per loro io sono un estraneo, un alieno. L’ambiente è riscaldato, e ci protegge dalla nebbia che ci assedia, così spessa che puoi vedere anche le singole goccioline in sospensione nell’aria.

Arrivo in stazione, e il treno è già lì ad aspettarmi. Faccio per salire, ma lo stanno ancora pulendo. Aspetto sulla banchina, infreddolito ma neanche tanto. A un certo punto le porte si aprono, e salgo. Ci sono solo io nell’intero vagone, il numero 5. Trovo il mio posto, finestrino, e mi siedo dopo aver messo lo zaino nella rastrelliera. La luce del treno è troppo intensa per essere reale alle cinque e mezza di mattina, quindi chiudo gli occhi.

Ricevo un messaggio da mia moglie, non riesce a dormire perché la piccola ha il sonno agitato. Mi chiede se le tengo un po’ compagnia. Inizio a scriverle, e a un certo punto, non so bene come, iniziamo a parlare di Alpaca. Progettiamo di aprire un allevamento di Alpaca nel nostro giardino di casa. Pochi euro per abbracciare un Alpaca. Magliette e cappellini con scritto Alpaca is Love Alpaca is Life. Un business da paura, nel giro di pochi mesi diventiamo milionari.

A un certo punto lei si riaddormenta, e anche io. Passano le stazioni, e il treno si riempie sempre di più. Quando arriviamo a Roma c’è gente che se ne sta in piedi nello spazio tra gli scompartimenti.

Il treno delle 5.37 è la parte che mi piace di meno del lavoro con il mio cliente di Roma. Ma in effetti, è un’esperienza interessante.

Scelte che ti cambiano

Scrivere è un po’ come andare in bicicletta: anche dopo uno stacco di un po’, ricominciare non è faticoso. Soprattutto se, come il sottoscritto, non hai mai davvero smesso.

Questo articolo, per me, è un po’ un punto di svolta, una ripartenza. In questi ultimi mesi la mia vita è cambiata drasticamente sotto molti punti di vista, e questo nuovo sito è solo il più superficiale. A proposito, ti piace? Fammelo sapere in un commento! 🙂

Il vero cambiamento della mia vita è stato l’arrivo di mia figlia. Una novità assolutamente attesa, almeno per i nove mesi precedenti, ma devo ammettere che se anche in teoria me lo aspettavo, non ero del tutto pronto all’impatto che questo ha avuto sulla mia vita.

Quello che ha davvero fatto la differenza, però, è la scelta che ho fatto, per gestire meglio questo cambiamento: smettere di lavorare per un paio di mesi, per dedicarmi al 100% a mia figlia e a mia moglie.

Una scelta per nulla scontata, in effetti. Sia io che mia moglie, infatti, siamo liberi professionisti, e non abbiamo un vero e proprio ammortizzatore sociale. Conosco moltissime persone che pur avendo, in teoria, le stesse possibilità, hanno scelto diversamente, guidate dall’ansia di non riuscire a pagare le bollette il mese successivo. E come dar loro torto? Questo è il bello e il brutto dell’essere imprenditori di sé stessi: possiamo gestire il nostro tempo come vogliamo, ma contemporaneamente abbiamo sempre l’ansia di non star facendo abbastanza.

La mia scelta è stata quella di chiudere i progetti a novembre, rimandare a gennaio/febbraio quelli in partenza, e soprattutto, riposizionarmi leggermente nel mio mercato di riferimento. Ebbene, questo sforzo di riposizionamento è culminato, tra le altre cose, nella creazione del sito che stai navigando proprio ora, ma anche in una nuova definizione di strategia commerciale.

La mia scelta è stata quella, per quest’anno, di lavorare di meno e guadagnare di più, sacrificando tutta una serie di progetti interessanti, ma a basso valore aggiunto. Proprio un paio di settimane fa mi trovavo in una sala riunioni a discutere un progetto davvero stimolante, con una ricaduta sociale importante, che mi sono trovato a rifiutare, banalmente perché pagava poco, e di interesse non strategico. Non è che non creda nella loro mission, o che il progetto non mi piaccia. Semplicemente, in questo momento le mie priorità sono altre.

Ebbene, mia figlia e mia moglie sono diventate una priorità, ancor più di prima.

Chiacchieravo con un altro consulente, un po’ di tempo fa, che a un certo punto mi ha detto “Vorrei aver potuto fare la stessa scelta, quando è nato il mio primo figlio“. Non ho saputo come rispondere. Forse le circostanze non glielo permettevano, o forse non ha avuto il coraggio di farlo. Però si è pentito di non averlo fatto.

Io, invece, a posteriori sono soddisfatto. I nuovi progetti su cui sto lavorando sono davvero stimolanti. Ho moltissimo tempo da dedicare a mia figlia. E a posteriori, posso dire di aver fatto la scelta giusta: nel primo mese dopo il parto, mia moglie ne ha subito in modo importante i postumi, rimanendo praticamente bloccata a letto per tutto il tempo, incapace di camminare, o anche solo di sedersi, se non per brevi periodi. Il fatto che fossi a casa con lei ha permesso a me di aiutarla, e a lei di riprendersi.

Nostra figlia sta bene, sembra felice. Da un po’, ormai, ha iniziato a sorridere e comunicare, a suo modo, riconoscendoci per chi siamo. Oggi è un essere capace solo di amare, e io sono felice di condividere questo aspetto della mia vita da consulente. Sono un bugiardo, e un pigro, ma almeno sono felice.

L’insostenibile leggerezza dell’essere Incinto

In questi giorni ho smesso di lavorare. Ho smesso di pubblicare su LinkedIn. Ho smesso di fare telefonate, prendere appuntamenti, e lavorare ai progetti. Vivo in stato di animazione sospesa.

Oggi mentre scrivo il post (ieri per te che leggi) è la data presunta in cui dovrebbe nascere  mia figlia. E io sono qui, seduto al computer, che non so che fare, e quindi scrivo. Non sapevo se questa settimana sarebbe uscito un mio post. Di sicuro so che questo articolo non verrà condiviso su LinkedIn, come faccio sempre. So che resterà qui, magari letto di sfuggita, o ignorato dai più. In questo momento, sento più che altro la voglia di dar voce ai miei pensieri. Non importa che qualcuno legga, ma se lo stai facendo, grazie per dedicare questi minuti ai pensieri sconnessi di un quasi-papà.

La gravidanza è una cosa strana. Per me è stato un momento in cui ho scoperto che il papà è contemporaneamente totalmente inutile, ma incredibilmente essenziale. Diciamoci la verità: viviamo in una società di stampo maschilista, o patriarcale, se preferisci, ma la verità è che chi ha il coltello dalla parte del manico è la popolazione femminile. Le vere responsabili della sopravvivenza della razza umana sono le donne. L’uomo in questi nove mesi è un surplus. Un po’ come se il resto della nostra società, quella in cui l’uomo è virile e necessario, sia una sorta di compensazione per quanto inutili siamo in quei nove mesi.

E io ho sempre fatto di tutto per esserci, per svolgere attivamente il mio ruolo di incinto. Ho fatto i massaggi ad Alice, mia moglie, quando aveva mal di schiena. Ho partecipato, quando potevo, ai corsi preparto. Mi sono preso giorni dal lavoro, per essere presente. Le ho fatto regali e sorprese. Ho letto libri sui figli, e sulla gravidanza. E alla fine, Alice ieri sera mi ha dato il colpo di grazia.

Mi fai molta tenerezza“, mi ha detto. “Ti ho visto lì, da solo, al computer, e mi sono sentita di dover fare qualcosa per te“.

Se avessi avuto delle tracce di machismo prima di quel momento, mia moglie le avrebbe massacrate così, passandoci sopra con la delicatezza di uno schiacciasassi su un pavimento di uova.

Ma non è solo questo. I libri fanno il loro. Ci sono un milione di libri che spiegano alla donna cosa sono la gravidanza, e il parto. Come funziona l’allattamento, e perché preferire quello al seno. Come si crescono i figli. Come si crea una casa Montessori. Tutti questi libri hanno la donna come interlocutore, al limite qualcuno ha qualche capitolo dedicato ai papà. Ho trovato solo un libro dedicato solo ed esclusivamente ai papà, che però è più che altro un racconto umoristico di quello che mi aspetta.

Il che a me fa un po’ ridere. Si parla tanto di sessismo, oggi, quando effettivamente è la società stessa che da una parte relega insieme i ruoli di donna e madre, dall’altra parte sembra escludere che un uomo possa essere anche papà. E sì, confesso che un po’ ci soffro per questa cosa, perché io davvero ci tengo ad essere un buon padre per mia figlia.

E insomma, oggi sono qua, che scrivo, e conto i giorni, le ore. Non posso fare nulla, se non esserci. Alice mi dice che è tutto quello di cui ha bisogno, ma io vorrei fare di più, anche se non so cosa. Mi sento come quando all’università hai già dato l’esame, e prima dell’inizio del prossimo trimestre non puoi fare nulla, se non aspettare, e sperare che sia andato tutto bene. Però sono ormai 9 mesi che questa sessione deve finire. So che i voti sarebbero arrivati in questo periodo, forse un po’ prima, forse un po’ dopo. Ora stiamo scivolando nell’un po’ dopo. E io sono fermo, carico come una molla.

E aspetto.

Uno che si fa Pagare per Aiutare gli altri

Ricordo quando andavo all’Università, ero ancora in triennale, e frequentai un corso che si chiamava Economia delle Aziende Nonprofit. Le nozioni non erano nulla di metafisico, o eccezionalmente utile, ma ricordo ancora il senso di illuminazione che provai quando il docente parlò dei Modelli di Business del Nonprofit.

Noi occidentali (e io per primo, almeno all’epoca) viviamo in una sorta di illusione in cui il mercato è un luogo di competizione, e i concorrenti sono avversari. Ma anche i clienti, in un certo senso, lo sono, e così i fornitori, in un gioco che ciascuno gioca per se stesso. Si fa presto, insomma, a parlare di collaborazione, sharing economy e simili: sotto sotto la maggior parte degli imprenditori, o dei liberi professionisti, e perfino dei dipendenti ha la sensazione di essere da soli contro il mondo.

Poi, dall’altra parte, c’è il mondo degli ideali e delle virtù. Il mondo in cui si aiutano gli altri, senza volere nulla in cambio. Il mondo in cui ci si può permettere di essere buoni, quello che storicamente è stato appannaggio del mondo Nonprofit.

Così, almeno, è stato nel mondo capitalista per eccellenza. E sono ormai molti anni che questi due mondi si stanno a tratti sovrapponendo, e forse ci sarà un futuro in cui ci sarà solo un’unica zona grigia.

Eppure ricordo ancora con chiarezza il mio stupore, a questa realizzazione. Io alla fine ero stato educato da buon Cristiano, e per me aiutare il prossimo doveva essere un atto gratuito. L’idea di chiedere dei soldi per un aiuto mi era, in qualche modo, aliena.

Ricordo come il docente spiegò con chiarezza che in un’economia come la nostra, anche la donazione stessa ha valore. Non posso donare economicamente se non ne ho disponibilità. Non posso donare il mio tempo, se non ne ho. Insomma, una nonprofit ha un modello di business come qualunque altra azienda, solo, chi riceve il servizio non è lo stesso che paga, ma qualcuno che paga c’è sempre.

Questo passaggio servì, in qualche modo, ad aiutarmi a capire che non c’è nulla di vergognoso nel concetto di essere remunerati per un aiuto. Anzi, già gli ordinamenti intorno al mondo (quello italiano sarebbe arrivato molto dopo) stavano iniziando a prevedere qualcosa come un’azienda con scopo sociale, o benefit company: un’azienda che ha scopo di lucro, ma con un oggetto sociale al centro della sua opera, e un’attenzione particolare alla sua ricaduta sull’ecosistema.

Racconto questa storia perché, alla fine, mi ci sono trovato anche io.

Il mio lavoro è quello di aiutare le persone. A una parte di me piacerebbe ancora farlo in modo gratuito. Eppure, anche io, mi rendo conto, devo mangiare, e quindi mi faccio pagare, anche profumatamente, per il mio lavoro, perché gli attribuisco un grande valore. In qualche modo, insomma, sono riuscito a trovare quella dimensione in cui sento di fare qualcosa di utile per la società, e al tempo stesso riesco a mangiarci.

E sì, sono un po’ fiero di questa cosa.

Ma quanto sei Figo?

Mi ricordo l’epoca ante-Internet. Frequentavo la scuola media, quando per la prima volta dentro casa mia arrivò una connessione. Ricordo ancora il modem 56k, con la linea che saltava ogni volta che squillava il telefono. Ricordo i tempi di connessione lunghissimi, che nel corso degli anni si sono fatti via via più veloci.

Ma ricordo anche com’era prima, anche se ero davvero piccolo. Il computer senza connessione, in cui per installare un file dovevi farlo con un floppy disk. Ricordo le telefonate, quando ancora i messaggi non si usavano. Ricordo la televisione, e le riviste. Beh, queste non sono cambiate molto, ma all’epoca erano in qualche modo più importanti.

Ricordo la sensazione di noia da bambino di una domenica pomeriggio di pioggia. La necessità di inventarsi qualcosa da fare, perché anche i cartoni a un certo punto annoiavano, e comunque non avevo il permesso di guardare la televisione per più di una o due ore al giorno.

Poi è arrivato internet, con le sue connessioni veloci, i video e i social network, e il mondo è cambiato.

Ma è cambiato davvero? Forse anche io, che ero un adolescente, stavo cambiando, quindi per me che mi stavo trasformando quotidianamente, il cambiamento del mondo sembrava poca cosa. Eppure, ripenso a com’era il mondo per come lo conoscevo da bambino, e tutte queste differenze non le noto.

Certo, ci sono un sacco di quelle che i miei nonni chiamano diavolerie tecnologiche, in giro. e che i miei genitori si sforzano ad imparare ad usare. Ma tecnologie a parte, gli esseri umani sono rimasti essenzialmente gli stessi. Oggi posso tenere il mio turno alle poste con una app, ma sento comunque persone litigare per chi è arrivato prima. Posso pagare il parcheggio dell’auto con il telefono, ma c’è sempre il tizio che mi ruba il posto anche se ha visto perfettamente che lì mi ci stavo mettendo io.

E poi, ovviamente, ci sono le persone popolari, quelle che un tempo chiamavamo VIP, e oggi Influencer. Ecco, proprio di questi vorrei parlare, perché sembra che oggi Internet abbia cambiato completamente i paradigmi della popolarità, ma la verità è che, come diceva Santajana, non c’è nulla di nuovo sotto questo cielo, tranne il dimenticato.

Di popolarità, infatti, si parla da quasi tremila anni, o almeno, i frammenti che parlano di questo fenomeno risalgono all’epoca Classica, ma sono fermamente convinto che se avessimo una macchina del tempo, e potessimo tornare all’epoca in cui l’essere umano era appena uscito dalla sua dimensione tribale, già questo fosse un argomento attuale.

Insomma, se vivevi ad Atene, o in un’altra città-stato, era impossibile che non conoscessi il Sofista di turno. Magari Protagora, che con le sue antilogie persuadeva il suo pubblico prima di una tesi, poi di quella opposta, oppure Ippocrate, che aveva la fama di guarire solo con le parole. E visto che nelle città-stato la Democrazia era una cosa seria, conoscevi sicuramente il candidato politico di turno a governare la città. Con l’invenzione della Democrazia, in effetti, la popolarità è diventata improvvisamente più importante dell’essere nati della giusta famiglia, ma anche del merito stesso.

Fu, infatti, lo stesso Platone a mettere tutti in guardia contro la Democrazia, che come sistema politico non premia il più competente, ma il più popolare. Buffo come in quasi tremila anni non l’abbiamo ancora capita, questa.

E se per secoli, e forse anche millenni, la popolarità fu un fatto prettamente politico, o religioso, dobbiamo aspettare l’invenzione del Capitalismo perché diventi anche un fatto economico, e per le masse. Nel corso del XX secolo, quindi, anche la popolarità diventa una merce di scambio. Molto presto, ci si rende conto che se tante persone guardano un fenomeno, o anche una singola persona, quel fenomeno o quella persona diventa un punto di riferimento. Nasce quindi il meccanismo delle sponsorizzazioni, ma non solo. La differenza tra ricchi e poveri deve essere accentuata: i ricchi devono avere qualcosa che li distingua dai poveri, e i poveri devono avere uno status quo a cui ambire. Ecco quindi che si sviluppano l’alta moda, e il mercato del lusso in generale.

Ma la popolarità non è riservata ai ricchi: c’è il mondo dell’intrattenimento che mescola le carte in tavola. Il cinema prima e la televisione poi portano alla ribalta personaggi che altrimenti sarebbero stati sconosciuti. Ma proprio perché sono così popolari, di fatto anche loro partecipano a quel gioco sociale di cui si parlava prima: danno alle masse l’illusione che chiunque potrebbe essere come loro.

Ed è così diverso, io mi domando, da quello che si vede oggi? La popolarità appare sempre più accessibile, ma sappiamo tutti benissimo che sono solo una piccolissima parte delle persone che ce la fanno davvero. Gli altri restano sospesi nel limbo del forse se mi impegno di più ce la farò.

Perché quelli che oggi sono Influencer sono quelli che ieri erano le star di Hollywood. Di George Clooney o Marilyn Monroe ce ne sono davvero pochi. Poi ci sono quelli che recitano nelle serie tv, e che hanno contratti più o meno duraturi. Poi ci sono quelli che ogni tanto fanno qualche spot. E poi ci sono tanti, tantissimi che fanno solo la fame, di provino in provino.

Ma la vera domanda che dovremmo farci è: sono davvero così influenti? Così capaci di creare dei modelli? Di influenzare le masse? Forse, o forse no. Ma danno a noi persone comuni dei modelli da seguire, o da cui discostarci. Ci danno delle persone da prendere come riferimento, o da insultare in modo spicciolo. Perché forse, alla fine, il valore della Popolarità è fine a se stesso, completamente autoreferenziale, e allo stesso tempo capace di influenzare l’intera società.

Ricordo quando non mi veniva naturale

Lo scorso weekend ero impegnato a insegnare in un Master di Comunicazione, e mentre parlavo di tecniche di dialogo è emerso quella che forse è una delle obiezioni più frequenti in questo contesto.

Quando uso queste tecniche mi sembra tutto così artefatto e innaturale. Non mi sento me stesso.

L’obiezione è perfettamente lecita. Quando impariamo a fare qualcosa di nuovo non viene mai naturale. Si tratta sempre di qualcosa di strano, artificiale. Voglio dire, se hai la patente probabilmente ti ricorderai che le prime volte che salivi in macchina dovevi pensare a girare la chiave di avviamento. Dovevi concentrarti, mentre premevi la frizione e decidevi qual era la marcia che volevi inserire. Dovevi prestare particolare attenzione mentre rilasciavi la frizione, e allo stesso tempo agivi sull’acceleratore.

Oggi, probabilmente, se hai la patente anche solo da qualche mese, non devi più pensare a queste cose. Il 100% della tua concentrazione è sulla strada, oppure, se sei una persona incosciente, sul cellulare. Ma di sicuro non sul gioco della frizione. Non su quanto stai calibrando il peso sull’acceleratore.

Spesso ci rifugiamo dietro a un sono fatto così, solo per celare l’inadeguatezza che sentiamo nei confronti di qualcosa di nuovo. Ogni volta che apprendo qualcosa (e questo è vero soprattutto nel mondo della comunicazione) mi sembra che il mio comportamento diventi innaturale. E se lo sento io, probabilmente, lo percepiscono anche gli altri. Hanno l’impressione che io stia recitando.

Poi, come diceva giustamente De Andrè, passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, e c’è un momento in cui non ci pensi più. In cui il comportamento diventa spontaneo. Perché anche se forse non te lo ricordi, c’era un periodo della tua vita in cui non sapevi guidare. Uno in cui non sapevi leggere. Uno in cui non eri in grado di mangiare in autonomia. Di parlare. Di camminare. In cui anche solo muovere una gamba, o una mano, era una sfida contro te stesso.

Il mio comportamento vi sembra artificiale?

Questa è la domanda che ho fatto all’aula, per ricevere risposta negativa.

Eppure, dall’inizio di questa lezione ho deliberatamente utilizzato la mia comunicazione per influenzare le dinamiche d’aula. Vi ho chiesto se potevamo darci del tu, per ridurre fin da subito la distanza relazionale tra di voi. Mi sono posizionato davanti alla cattedra, per evitare ostacoli. Ho utilizzato la comunicazione analogica, usando storie, metafore, modulando la voce e usando il mio non verbale per suscitare in voi delle reazioni emotive. Ho usato lo sguardo, per catturare la vostra attenzione. E tutto questo l’ho fatto in modo deliberato, esattamente come stamattina ho preso la macchina, e ho deliberatamente guidato fino a qui.

Ogni volta che affrontiamo un cambiamento importante, c’è un momento in cui il risultato ci appare innaturale. Perché la spontaneità, alla fine, non è che l’ultima fase del vero apprendimento, quello in cui è diventato acquisizione.

I Social sono pieni di idioti

Questo è un post che non ti piacerà, perché contiene tante brutte verità. Che come dico spesso, sono solo punti di vista, e per questo motivo, dopo averlo letto, potrai pensare che si tratta solo di mie opinioni, e continuerai ad andare avanti nella tua vita come se nulla fosse.

E la mia opinione riguarda il mondo dei Social Network, e potrebbe essere riassunta in questo modo: sono una gran bella cosa, ma la gente non li sa usare, e quindi arrivano a perdere il loro significato. Naturalmente, non sto parlando di te nello specifico, ma di tutti gli altri, puoi stare tranquillo.

Le persone di cui parlo, quando si siedono dietro a un computer e iniziano a scrivere, perdono molte inibizioni. Fanno e dicono cose senza rendersi conto di ciò che stanno facendo. Delle conseguenze delle loro azioni.

Mi considero un grande appassionato di tecnologia. Mi accendo quando sento parlare di alcune delle ultime novità del mondo dell’Innovazione, e ne immagino le potenzialità quando diventeranno diffuse. Ma in un certo senso, proprio perché ne sono così appassionato ne vedo anche i limiti. Perché queste tecnologie, nella maggior parte dei casi, rischiano di essere alienanti, allontanando l’essere umano da quella che è la sua vita.

Un esempio molto semplice lo vivo nella mia esperienza da futuro papà. Oggi come oggi, il genitore medio al momento del parto è più concentrato sull’immortalare il momento in una fotografia, che nello stare vicino al partner, che oltre a soffrire di dolori non indifferenti, ha bisogno del suo supporto, sia fisico che emotivo. Ecco, catturare un momento in una foto può sembrare un fatto innocuo, di pochi istanti, ma ci porta via da un contesto emotivamente carico, quello del parto, per congelarlo attraverso il freddo filtro di un cellulare.

Insomma, per avere un ricordo fotografico, perdo l’opportunità di creare un vero ricordo.

Poi il figlio arriva (la figlia, nel mio caso), e i Social si riempiono di foto della bimba, il cui diritto di   viene ceduto alle piattaforme in cambio di una manciata di Likes che servono solo ad alimentare la vanità dei genitori.

E come accade a tutti, anche quella bella bambina cresce, va a scuola, diventa adolescente. E visto che una privacy non l’ha mai avuta, dove sta il problema se condivide i suoi momenti intimi su Instagram? Ma magari è un filo più abbondante del normale, o troppo alta, o troppo bassa, o troppo perfetta. Ed ecco che arrivano gli hater, che la insultano, e la bullizzano. Hater che sono come lei, insultati e bullizzati a loro volta.

E lei magari conosce quel ragazzo che le dice di non preoccuparsi, che la fa stare serena. Magari ci va anche a letto, e perché no, gli manda anche qualche nudo artistico via Telegram, perché a tutti piace piacere, e non c’è motivo per negare al proprio morosetto un ricordo di una bella vista. Ma lui, che a sua volta non si rende conto di quanto questo gesto sia importante manda le foto a tutti i suoi amici.

Perché i Social sono pieni di idioti, e noi abbiamo una scelta abbastanza semplice. Possiamo essere idioti anche noi. Possiamo essere quelli che condividono le foto dei figli. Che insultano gli altri, protetti da un nickname. Che fanno girare le foto dei capezzoli di una ragazzina.

Oppure possiamo scegliere di essere responsabili. Ma a che pro? Essere idioti è più divertente, dopo tutto. Non è a questo che servono i Social?

Certo che ho i Pregiudizi

Sono sicuro che almeno una volta nella vita sia capitato anche a te.

Succede più o meno a tutti, insomma. Tu te ne stai lì, tranquillo, e lasci che il mondo vada più o meno per la sua strada, quando commetti l’atroce errore di esprimere la tua opinione su un argomento. A quel punto, arriva quel tizio che passava di là, e inizia a spiegarti perché hai torto, e lui ha ragione. E tu, naturalmente, che pensi di avere ragione a tua volta, inizi a discutere con lui, fino a quando non alzi le braccia al cielo in frustrazione. Al che, lui, subdolamente si rifugia dietro all’ultima linea di difesa che mettiamo in piedi.

Ecco, lo vedi? Hai un pregiudizio.

Oppure, come mi ha effettivamente scritto una persona in un commento ad un post su LinkedIn (cito testualmente):

“Ti stai arrampicando sugli specchi spudoratamente. Anche tu sei convinto della tua OPINIONE e non prendi minimamente in considerazione la possibilità che ci sia del vero nella questione”.

Di solito, quando accade qualcosa del genere ci limitiamo a mandare la persona a quel paese, frustrati nelle nostre intenzioni, o dalla situazione in generale. Perché dentro di noi lo sappiamo, quando ci dicono quella cosa, hanno ragione. Davvero si tratta di un pregiudizio. Un’opinione.

Ciò che non vogliono vedere, di solito, è che anche il loro punto di vista lo è altrettanto, ma facciamo un passo indietro.

Come ho già scritto diverse volte, ciascuno di noi costruisce la propria rappresentazione del mondo, attraverso quelle che in psicologia vengono chiamate Credenze. Nome forse più neutro rispetto a Pregiudizi e Opinioni, ma che di fatto le comprende entrambe: tutto ciò che pensiamo di sapere del mondo non è che una nostra rappresentazione, e una conoscenza oggettiva, o definitiva, non esiste. Non a caso, due delle Psicotrappole del Pensiero individuate da Giorgio Nardone sono proprio l’Illusione della Conoscenza Definitiva e il Mito del Ragionamento Perfetto. E ancora meno a caso, in queste trappole cadono ancor di più le persone particolarmente intelligenti, che, in qualche modo, è proprio da quell’intelligenza che sono tratte in inganno.

Lo avrai sperimentato anche tu. Ci sono quelle persone che parlano senza avere idea di ciò che stanno dicendo, le cui opinioni sono basate squisitamente sul sentito dire, e poi ci sono quelle che hanno fatto un’estesissima ricerca in materia, e probabilmente potrebbero prendere una laurea ad honorem. Ma non farti ingannare dalle apparenze: la verità di questo secondo gruppo non è più vera di quella del primo. In entrambi i casi si tratta solo, a ben vedere, di opinioni.

Insomma, come diceva già Watzlawick, se anche ammettiamo l’esistenza di una realtà oggettiva, questa è di fatto inconoscibile, perché ciò che ne otterremo sarà sempre e solo una rappresentazione.

In questa logica è facile vedere come tutto ciò che conosciamo rientra nella dimensione del pregiudizio, dell’opinione. Insomma, non importa quanto abbiamo approfondito un argomento, o quanto abbiamo studiato. Ciò che sappiamo non sarà altro che una nostra, personalissima rappresentazione della realtà, potenzialmente in disaccordo, quindi, con quella di qualcun altro.

Qualcun altro che non avrà scrupoli a dirci che abbiamo dei pregiudizi, e in effetti non c’è nulla di male in questo. Ebbene sì, abbiamo delle opinioni. L’importante è saperlo, e in qualche misura essere anche disposti a cambiarle. No, non quando leggiamo un tizio su internet che ci dice che ci sbagliamo, questo di solito non fa che rinforzarle.

Però è utile, se non altro, avere una mente aperta alle varie possibilità. E il capire come costruiamo le nostre credenze, sicuramente, ci aiuta a farlo meglio.