Dammi pure del Leo

I titoli lasciali agli altri

Quando mi chiedono che lavoro faccio, rispondo che sono Consulente e Formatore. La verità è che nemmeno io l’ho capito di che cosa mi occupo esattamente. Ma una cosa la so: è un lavoro costante di sottrazione.

Uso spesso il concetto di inutilità per descriverlo. Dell’inutilità è facile vedere (e vendere!) il lato funzionale: rendersi inutili per i propri clienti significa renderli autonomi.

In realtà, per me ha una valenza quasi spirituale: significa accettare che il mondo girava benissimo prima di noi, e dovrà girare altrettanto bene dopo.

Vale per i figli, vale per le aziende, vale per le idee.

Il mio compito non è nutrire il mio ego rendendomi indispensabile. Il mio compito è generare un impatto irreversibile, costruire un nuovo equilibrio che regga l’urto della realtà e poi togliermi di mezzo. Facendo finta di non esserci mai nemmeno stato.

Non sono qui per essere il protagonista della tua storia. Sono qui per progettare la mia assenza, affinché la tua storia possa continuare da sola.

(e sia una figata di storia!)

Togliere la sofferenza

lavorare non dovrebbe essere una condanna

Ho avuto un paio di esperienze come lavoratore dipendente, all’inizio della mia carriera. Sono durate poco, abbastanza per capire che quella non era la mia strada. Ma soprattutto abbastanza per sentire sulla pelle una sensazione che non avrei più dimenticato: il senso di soffocamento.

Quando sono passato dall’altra parte, diventando consulente, mi sono accorto di aver lasciato quella sensazione fuori solo dalla mia porta, ma la ritrovavo ovunque, nelle case degli altri.

Ho visto manager brillanti essere messi alla porta perché rompevano equilibri che non andavano toccati. Ho visto team pieni di talento paralizzati da processi insensati. Ho visto persone fermarsi a piangere nei bagni, svuotate, non tanto dalla fatica del fare, ma dalla frustrazione del dover combattere contro il proprio stesso ufficio per riuscire a lavorare.

Ho capito una cosa fondamentale: la sofferenza lavorativa non è quasi mai responsabilità delle persone. È progettata nei contesti.

Soffriamo perché lavoriamo dentro architetture organizzative disegnate male, o non disegnate affatto. Strutture che mettono le persone l’una contro l’altra invece che l’una accanto all’altra.

Il mio scopo nasce qui. Non mi interessa aumentare la produttività (quello è un effetto collaterale). A me interessa togliere la sofferenza dal lavoro. Intervenire sul sistema per eliminare l’attrito inutile, la tossicità strutturale e il dolore dello spreco di talento.

Perché un sistema ben progettato non è solo più efficiente. È più umano.

Non fidarti di me. Leggi qui

I miei spigoli

Evitiamo i malintesi

Invece di elencare i miei pregi, preferisco darti tre motivi per cui potresti odiarmi fin dal primo minuto.

Sono spietatamente trasparente. Dico le cose come le vedo, senza filtri. Questo spesso offende chi preferisce vivere solo in una sua rigida verità, e io ho la cattiva abitudine di raccontare proprio ciò che ci si rifiuta di vedere.

Creo disagio. Voglio metterti alla prova, le coccole le dedico solo alle mie figlie. Ti spingerò intenzionalmente in luoghi molto scomodi, perché è lì che accade la crescita.

Sono un agente del caos. Ti piace che sia tutto preciso, statico e ordinato? Dimenticatene. L’ordine stagnante è nemico dell’evoluzione: il mio lavoro è distruggere quell’equilibrio apparente per liberare il vero potenziale del tuo ecosistema.

È il momento di un confronto senza filtri per liberare il potenziale del tuo ecosistema?

Oppure torna alle origini