Una cosa che ho imparato, nel corso degli anni in cui mi sono dedicato a questo lavoro, è che quasi mai esiste una proporzionalità tra l’entità e la complessità del sintomo e quelle del problema che esso sottende.

Mi è capitato, infatti, diverse volte di trovarmi a gestire in un paio d’ore problemi apparentemente enormi, che avevano coinvolto l’intera azienda. In altri casi, viceversa, situazioni piccole, apparentemente insignificanti, come il gossip alla macchinetta del caffè, celavano invece problemi pervasivi, annidati in tutti i livelli aziendali, e che hanno creato le condizioni, ma anche la volontà, di introdurre cambiamenti importanti e strutturali nell’intera organizzazione, con un impatto non solo sul clima e sulla cultura aziendale, ma sul potenziale innovativo e il business della stessa.

Il problema

Un manager di una media azienda piuttosto strutturata, che conta 250 dipendenti, dopo aver assistito ad una mia lezione in aula, mi chiede di potermi presentare al suo capo, il titolare e amministratore delegato della società, per risolvere un problema che li assilla da un po’ di tempo: la presenza insistente di gossip alla macchinetta del caffè.

Non si tratta di un tema prioritario per l’azienda: in questo momento lo sforzo dei manager è focalizzato nel sostenere il momento di crescita che l’azienda sta vivendo da ormai alcuni anni. Essa è infatti passata dall’avere meno di 80 collaboratori ad averne circa 250 in questo periodo, con l’apertura di uffici in diversi paesi, una revisione complessiva della struttura organizzativa, che ha creato nuovi livelli di management, e l’introduzione di numerose nuove procedure per semplificare la gestione complessiva, con l’inserimento di un nuovo sistema premiante dei collaboratori, che mediamente guadagnano dal 10 al 15% in più rispetto a prima in questo modo.

Al momento la presenza di gossip e malumori è solo un sintomo, ma la preoccupazione è che in futuro essa possa tradursi in un deterioramento della cultura aziendale, e un aumento del turnover, con gli ovvi rischi sia sui costi diretti dell’azienda che su quelli indiretti.

Il lavoro svolto insieme

Il primo step necessario è stato l’organizzazione di un incontro tra l’AD dell’azienda e tutti i top manager, con l’obiettivo di proporre un esercizio di problem solving per creare un accordo sul problema, e definire una strategia per risolverlo. In un certo senso, l’organizzazione stessa di tale riunione ha sveltato il problema meglio della riunione stessa: scarsa collaboratività tra i manager, ritardi, e rimandi hanno reso difficile anche un’attività apparentemente semplice. Quando questa situazione è stata fatta notare all’AD, questi ha risposto che essendo i manager abituati ad essere molto autonomi, essi tendono a non essere particolarmente collaborativi tra loro, avendo ciascuno i propri obiettivi, e anche quando era lui stesso ad essere coinvolto, il problema non era risolto poiché spesso i manager accampavano scuse o emergenze per non partecipare gli incontri, o non seguire delle direttive.

Nell’attesa di riuscire a coinvolgere i manager, ho iniziato con il titolare delle sessioni di coaching individuale, per aiutarlo a prendere maggiormente le redini del suo team. Per quanto la loro autonomia fosse, infatti, un risultato desiderabile, la loro scarsa collaboratività è stata identificata come problematica. Già dopo la prima sessione, infatti, lo stile comunicativo dell’AD, prima eccessivamente morbido e democratico, è divenuto più efficace, e alla fine è stato raggiunto il primo obiettivo: riunire la squadra.

Durante la sessione il problema emerge in tutta la sua chiarezza: una gestione caotica e discontinua di ciascun dipartimento, con ciascun manager che si comporta come un piccolo re. A cascata, un aumento della burocratizzazione dell’azienda, e quindi dei livelli organizzativi, anziché semplificare ha reso più complessa la gestione. In questo contesto un sistema premiante spesso percepito come iniquo, e comunque dipendente in larga parte dal gradimento dei singoli manager, non è che benzina sul fuoco già acceso. Per fortuna la situazione non è ancora del tutto strutturata, e i manager, guidati anche da me e dall’Amministratore Delegato, concordano che la soluzione sia essere più collaborativi tra loro, ma anche più pronti a recepire gli input dell’AD in termini di visione strategica e cultura aziendale, oltre che di obiettivi economici.

Il lavoro si è quindi focalizzato sull’AD. Se, infatti, da una parte ha continuato ad incentivare l’autonomia dei singoli manager, dall’altra si è fatto promotore di una nuova cultura aziendale, basata sulla semplicità dei processi da una parte, e su una maggiore apertura alla collaborazione dall’altra. Anche con i manager sono state svolte diverse sessioni individuali per comprendere come tradurre questi stimoli in azioni concrete, che avessero una ricaduta organizzativa importante. Sono stati inoltre istituiti dei laboratori di leadership per tutte le persone chiave nell’azienda, con lo scopo di rendere più piatta la struttura, organizzativa, semplificando la gestione, e aumentando la responsabilità e la partecipazione individuale.

I risultati

Dopo i primi sei mesi di lavoro l’azienda era ben avviata nel suo processo di cambiamento, e nel periodo che è durato dai sei mesi all’anno ne ha visto i principali frutti: l’azienda ha sostenuto la crescita, senza però aumentare sensibilmente il numero di persone assunte, con un conseguente aumento della produttività individuale e della marginalità aziendale. I livelli di management si sono ridotti, tanto che formalmente solo i top manager mantenevano un titolo in senso stretto, anche se sono emerse e responsabilizzate nuove figure di leadership orizzontale. I team sono diventati molto flessibili, e la soddisfazione delle persone è cresciuta, poiché ogni collaboratore, oggi, ha la possibilità di dedicarsi a progetti che ritiene interessanti, investendo il suo tempo per raggiungere obiettivi, anziché per eseguire mansioni.

Inoltre è stato incentivato un certo grado di turnover, per gestire al meglio questa nuova transizione, e si è approfittato dell’occasione per investire maggiormente su una maggiore etoregeneità aziendale, principalmente per genere ed età, ma anche per cultura. L’azienda nel complesso è diventata quindi più flessibile ed innovativa, nonostante il numero importante di collaboratori. Alla fine dell’anno l’azienda ha avvitato la sperimentazione dello smart working, e ha iniziato a esplorare i meccanismi di welfare aziendale, insieme a un consulente dedicato.

Ah, e naturalmente il gossip alla macchinetta del caffè è sparito.