Fare il manager è un mestiere difficile, più di quanto non si pensi.

Il motivo non sono solo le responsabilità crescenti: le competenze necessarie per svolgere in modo eccellente il ruolo del manager sono completamente differenti da quelle di un operativo. Hanno a che fare da una parte con il definire obiettivi realistici, organizzare il lavoro in modo da raggiungerli, e rendere sempre più efficienti i processi; dall’altra con il doversi far seguire da persone sempre diverse, spesso imprevedibili, talvolta perfino deliberatamente ostili.

E se, da una parte, esistono fiori fiore di MBA che insegnano a gestire la componente più economica della managerialità, dall’altra le competenze umane sono spesso trascurate, ignorate, oppure si mette eccessiva enfasi su come possano essere apprese solo attraverso l’esperienza.

Solo quei manager che trovano i giusti stimoli per migliorare sia le proprie competenze tecniche che quelle relazionali hanno poi quelle capacità a tutto tondo per creare dei team ad alte prestazioni.

Il problema

Un manager di un’azienda medio-grande mi contatta per svolgere una sessione di coaching, poiché ha un problema specifico: coordina un ufficio di otto persone, che lamenta di essere costretto a controllare ininterrottamente. A sua volta viene messo costantemente sotto pressione per portare risultati tangibili dal suo responsabile, e ha la sensazione che se mollasse le redini solo per un giorno, la situazione precipiterebbe.

Da una prima indagine emerge che nelle (pochissime) situazioni in cui è stato assente a causa di malattie o problemi personali, la performance dell’ufficio è stata effettivamente scadente, costringendolo a portarsi parte del lavoro a casa, e a sistemare in corsa i problemi connessi dai propri collaboratori.

Collaboratori con i quali ha delle relazioni meno che tiepide: sa di essere percepito come un micromanager, e in più di un’occasione in passato si sono generate forti situazioni di conflitto proprio a causa di questa sua tendenza al controllo. Lui, a sua volta, riscontrava costantemente problemi ed errori nel lavoro dei propri collaboratori, che era costretto a correggere di continuo, aumentando così sempre più il suo livello di controllo.

Il lavoro svolto insieme

Fin dai primi momenti del nostro colloquio, emerge chiaramente come il manager sia intrappolato in una dinamica circolare: più lui tenta di controllare il lavoro dei propri collaboratori, minore è l’impegno che essi mettono nel raggiungere i propri obiettivi. Questo alimenta un clima di sfiducia e irresponsabilità, che non fa che aumentare nel tempo.

L’unica soluzione possibile, quindi, è quella di interrompere questo circolo vizioso, partendo proprio dalla sua ossessione di controllo. A questo punto chiedo cosa accadrebbe se il suo ufficio ritardasse nel raggiungimento degli obiettivi di qualche giorno, per un po’ di tempo. Molto candidamente risponde che l’azienda non ne soffrirebbe, ma il suo manager, un uomo decisamente umorale, non gli risparmierebbe qualche cazziatone.

Gli chiedo, a questo punto, se quei cazziatoni sono un prezzo che è disposto a pagare per invertire questa tendenza di iper controllo, e lui risponde che sì, è un prezzo decisamente basso. A questo punto, quindi, concordiamo insieme una strategia che fin da subito dovrà mettere in pratica con i collaboratori, e che sarà basata su due fondamentali regole: dovrà ridurre progressivamente la frequenza del controllo, e non dovrà più prendersi carico del compito di correggere gli errori commessi dai collaboratori, qualora dovesse riscontrarne, dovrà limitarsi a rimandare indietro il lavoro, fino a che il livello di qualità non sarà adeguato.

I risultati

Il manager è decisamente scettico da questa proposta, ma decide di sperimentarla ugualmente, consapevole sia che questo creerà dei dissidi con il suo responsabile, sia che gli effetti non saranno immediati. I risultati, però, lo lasciano basito: i collaboratori vivono in modo decisamente positivo una maggiore pressione su di loro, ma restano interdetti quando, in qualche modo, sono costretti a rimettere mano al loro lavoro, spesso più e più volte. Alla seconda sessione la risposta del manager è ambivalente: da una parte la capacità dell’ufficio di portare avanti il lavoro sembra irrimediabilmente compromessa, e proprio il giorno prima ha già ricevuto uno dei famosi cazziatoni da parte del suo responsabile. Dall’altra parte, però, lui stesso sente meno la pressione di quel controllo, e nonostante stia interpretando la parte del capo a cui non va bene nulla, i collaboratori sembrano vivere bene quel suo nuovo stile, e il clima nel suo ufficio è più rilassato.

Invito quindi il manager a continuare con questa strategia per altre due settimane, e tanto rapidamente quanto si è deteriorata, la situazione sembra essersi risolta: a parte il fatto di essere stato nuovamente ripreso una dal responsabile a distanza di pochi giorni a causa dei ritardi, il lavoro svolto dai collaboratori è di qualità notevolmente superiore, e gli errori, quando presenti, sono marginali. Il manager ha riguadagnato tutto il tempo che prima impiegava a controllare e correggere il lavoro dei collaboratori, che nei suoi confronti sono decisamente più aperti e disponibili.

L’affiancamento continua ancora per 3 sessioni, per fare in modo che i risultati continuino ad andare in questa direzione, e che il cambiamento sia consolidato. Non ci sono state più occasioni di scontro tra il manager e il suo responsabile a causa di ritardi, e il livello di controllo nei confronti dei collaboratori è sempre più rado. Un intervento, quindi, localizzato e veloce che ha risolto definitivamente un problema già, apparentemente, piuttosto consolidato.