C’era un tempo in cui ero un Introverso

Proprio qualche giorno fa, mentre tenevo un corso di comunicazione, e ragionavo con la classe su cosa volesse dire comunicare meglio, è emerso uno spunto che in questi casi è forse il più frequente.

Vorrei avere sempre la risposta pronta, mi ha detto la persona in aula.

Quando sento queste cose mi viene da sorridere. Sorrido perché se da una parte denotano una comprensione davvero superficiale di cosa significhi comunicare (ma d’altra parte io sono lì per insegnarglielo), dall’altra mi ricordano molto me stesso, per come ero alcuni anni fa. Perché se da una parte mi piace definirmi un Ambiverso, dall’altra sono costretto ad ammettere che non sono sempre stato così, e forse è proprio per questo che lo spunto che ho riportato è quello che mi tocca più dal profondo, e che rende così piacevole per me la risposta. Alla fine, è un po’ la storia della mia esperienza di vita.

Da bimbo ero quel ragazzo che faceva fatica a socializzare. Non perché fossi timido o impacciato, ma perché tutto sommato mi piaceva starmene in compagnia. Osservandomi in retrospettiva, ero un buon gregario: quel bimbo prima, e ragazzo poi che non stava mai sul palcoscenico, ma che manteneva sempre una presenza di sottofondo nei gruppi. Sapevo andare d’accordo con i miei coetanei, anche se in generale mi piaceva tenermi in disparte.

Come dicevo poco fa, non ero timido, o impacciato. Anzi, ero abbastanza sicuro di me. Non ho mai avuto una grande paura delle relazioni sociali. Certo, un po’ di timidezza c’era, soprattutto nei primi momenti di relazione. Quel po’ di insicurezza che, fatti salvi gli estroversi incalliti, tutti hanno quando per la prima volta chiedono a un gruppo di bambini nel cortile se possono unirsi a giocare con loro, per poi sciogliermi poco dopo, adattandomi in maniera quasi liquida alle dinamiche di gruppo. Se si giocava a calcio e serviva un portiere io facevo il portiere, tanto a calcio non è che giocassi così bene. Se si giocava a nascondino non volevo prendere, perché nessuno vuole prendere, e allora si faceva la conta. Per poi diventare un adolescente impacciato, uno di quelli che è più veloce a raccogliere le battute degli altri che a inventare le proprie. Uno che sogna le ragazze più belle insieme a tutti gli altri, ma alla fine finisce con un’altra, molto più simile a lui. Insomma, uno normale.

Posso solo definirmi introverso. Uno che chiedeva più che dire. Uno che ascoltava, piuttosto che parlare. Quando vai a scuola non è una dote particolarmente vincente, devo ammetterlo. Nei gruppi sociali, soprattutto quelli da adolescente, non ti rende popolare.

Non lo ero.

E non mi dispiaceva. Sì beh, ci sono alcuni momenti in cui ho desiderato essere quel ragazzo bello e magnetico, che tutte le ragazze inseguono. Non posso negarlo. Ma quella è stata una fase, oggi sono un uomo felicemente sposato, e per fortuna l’ormone impazzito è passato.

Insomma, se da una parte ero uno che amava anche stare al margine dei gruppi sociali, dall’altra non riuscivo a capacitarmi del perché ci fossero persone così agili, che avevano sempre qualcosa da dire, o battute da fare. Insomma, come mai quelle persone avevano sempre la risposta pronta e io no?

Sono passati alcuni anni da allora. E in effetti, il salto più grande l’ho fatto proprio quando ho iniziato a studiare comunicazione. Se è vero, infatti, che avere sempre qualcosa da dire ti aiuta quando sei bambino, o adolescente, il mondo del lavoro funziona in altro modo. Tutti hanno qualcosa da dire, e l’ascolto improvvisamente diventa merce rara. Chi ascolta davvero sono ben poche persone, e questa in qualche modo diventa l’arma dell’introverso. Chi ascolta può parlare usando le parole degli altri, senza esporre se stesso, ma guidando una conversazione, ad esempio. Chi ascolta sa cose che chi parla non sa.

Chi ascolta sa persuadere, e quindi sa guidare dolcemente al cambiamento. Chi parla può diventare anche aggressivo nel suo gesto, ma questo non fa che opporgli nuove resistenze.

Insomma, il punto, ho imparato, non è tanto avere sempre qualcosa da dire. Perché se ascolti tanto le cose, poi, si dicono da sole.

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