L’insostenibile leggerezza dell’essere Incinto

In questi giorni ho smesso di lavorare. Ho smesso di pubblicare su LinkedIn. Ho smesso di fare telefonate, prendere appuntamenti, e lavorare ai progetti. Vivo in stato di animazione sospesa.

Oggi mentre scrivo il post (ieri per te che leggi) è la data presunta in cui dovrebbe nascere  mia figlia. E io sono qui, seduto al computer, che non so che fare, e quindi scrivo. Non sapevo se questa settimana sarebbe uscito un mio post. Di sicuro so che questo articolo non verrà condiviso su LinkedIn, come faccio sempre. So che resterà qui, magari letto di sfuggita, o ignorato dai più. In questo momento, sento più che altro la voglia di dar voce ai miei pensieri. Non importa che qualcuno legga, ma se lo stai facendo, grazie per dedicare questi minuti ai pensieri sconnessi di un quasi-papà.

La gravidanza è una cosa strana. Per me è stato un momento in cui ho scoperto che il papà è contemporaneamente totalmente inutile, ma incredibilmente essenziale. Diciamoci la verità: viviamo in una società di stampo maschilista, o patriarcale, se preferisci, ma la verità è che chi ha il coltello dalla parte del manico è la popolazione femminile. Le vere responsabili della sopravvivenza della razza umana sono le donne. L’uomo in questi nove mesi è un surplus. Un po’ come se il resto della nostra società, quella in cui l’uomo è virile e necessario, sia una sorta di compensazione per quanto inutili siamo in quei nove mesi.

E io ho sempre fatto di tutto per esserci, per svolgere attivamente il mio ruolo di incinto. Ho fatto i massaggi ad Alice, mia moglie, quando aveva mal di schiena. Ho partecipato, quando potevo, ai corsi preparto. Mi sono preso giorni dal lavoro, per essere presente. Le ho fatto regali e sorprese. Ho letto libri sui figli, e sulla gravidanza. E alla fine, Alice ieri sera mi ha dato il colpo di grazia.

Mi fai molta tenerezza“, mi ha detto. “Ti ho visto lì, da solo, al computer, e mi sono sentita di dover fare qualcosa per te“.

Se avessi avuto delle tracce di machismo prima di quel momento, mia moglie le avrebbe massacrate così, passandoci sopra con la delicatezza di uno schiacciasassi su un pavimento di uova.

Ma non è solo questo. I libri fanno il loro. Ci sono un milione di libri che spiegano alla donna cosa sono la gravidanza, e il parto. Come funziona l’allattamento, e perché preferire quello al seno. Come si crescono i figli. Come si crea una casa Montessori. Tutti questi libri hanno la donna come interlocutore, al limite qualcuno ha qualche capitolo dedicato ai papà. Ho trovato solo un libro dedicato solo ed esclusivamente ai papà, che però è più che altro un racconto umoristico di quello che mi aspetta.

Il che a me fa un po’ ridere. Si parla tanto di sessismo, oggi, quando effettivamente è la società stessa che da una parte relega insieme i ruoli di donna e madre, dall’altra parte sembra escludere che un uomo possa essere anche papà. E sì, confesso che un po’ ci soffro per questa cosa, perché io davvero ci tengo ad essere un buon padre per mia figlia.

E insomma, oggi sono qua, che scrivo, e conto i giorni, le ore. Non posso fare nulla, se non esserci. Alice mi dice che è tutto quello di cui ha bisogno, ma io vorrei fare di più, anche se non so cosa. Mi sento come quando all’università hai già dato l’esame, e prima dell’inizio del prossimo trimestre non puoi fare nulla, se non aspettare, e sperare che sia andato tutto bene. Però sono ormai 9 mesi che questa sessione deve finire. So che i voti sarebbero arrivati in questo periodo, forse un po’ prima, forse un po’ dopo. Ora stiamo scivolando nell’un po’ dopo. E io sono fermo, carico come una molla.

E aspetto.

Uno che si fa Pagare per Aiutare gli altri

Ricordo quando andavo all’Università, ero ancora in triennale, e frequentai un corso che si chiamava Economia delle Aziende Nonprofit. Le nozioni non erano nulla di metafisico, o eccezionalmente utile, ma ricordo ancora il senso di illuminazione che provai quando il docente parlò dei Modelli di Business del Nonprofit.

Noi occidentali (e io per primo, almeno all’epoca) viviamo in una sorta di illusione in cui il mercato è un luogo di competizione, e i concorrenti sono avversari. Ma anche i clienti, in un certo senso, lo sono, e così i fornitori, in un gioco che ciascuno gioca per se stesso. Si fa presto, insomma, a parlare di collaborazione, sharing economy e simili: sotto sotto la maggior parte degli imprenditori, o dei liberi professionisti, e perfino dei dipendenti ha la sensazione di essere da soli contro il mondo.

Poi, dall’altra parte, c’è il mondo degli ideali e delle virtù. Il mondo in cui si aiutano gli altri, senza volere nulla in cambio. Il mondo in cui ci si può permettere di essere buoni, quello che storicamente è stato appannaggio del mondo Nonprofit.

Così, almeno, è stato nel mondo capitalista per eccellenza. E sono ormai molti anni che questi due mondi si stanno a tratti sovrapponendo, e forse ci sarà un futuro in cui ci sarà solo un’unica zona grigia.

Eppure ricordo ancora con chiarezza il mio stupore, a questa realizzazione. Io alla fine ero stato educato da buon Cristiano, e per me aiutare il prossimo doveva essere un atto gratuito. L’idea di chiedere dei soldi per un aiuto mi era, in qualche modo, aliena.

Ricordo come il docente spiegò con chiarezza che in un’economia come la nostra, anche la donazione stessa ha valore. Non posso donare economicamente se non ne ho disponibilità. Non posso donare il mio tempo, se non ne ho. Insomma, una nonprofit ha un modello di business come qualunque altra azienda, solo, chi riceve il servizio non è lo stesso che paga, ma qualcuno che paga c’è sempre.

Questo passaggio servì, in qualche modo, ad aiutarmi a capire che non c’è nulla di vergognoso nel concetto di essere remunerati per un aiuto. Anzi, già gli ordinamenti intorno al mondo (quello italiano sarebbe arrivato molto dopo) stavano iniziando a prevedere qualcosa come un’azienda con scopo sociale, o benefit company: un’azienda che ha scopo di lucro, ma con un oggetto sociale al centro della sua opera, e un’attenzione particolare alla sua ricaduta sull’ecosistema.

Racconto questa storia perché, alla fine, mi ci sono trovato anche io.

Il mio lavoro è quello di aiutare le persone. A una parte di me piacerebbe ancora farlo in modo gratuito. Eppure, anche io, mi rendo conto, devo mangiare, e quindi mi faccio pagare, anche profumatamente, per il mio lavoro, perché gli attribuisco un grande valore. In qualche modo, insomma, sono riuscito a trovare quella dimensione in cui sento di fare qualcosa di utile per la società, e al tempo stesso riesco a mangiarci.

E sì, sono un po’ fiero di questa cosa.

Ma quanto sei Figo?

Mi ricordo l’epoca ante-Internet. Frequentavo la scuola media, quando per la prima volta dentro casa mia arrivò una connessione. Ricordo ancora il modem 56k, con la linea che saltava ogni volta che squillava il telefono. Ricordo i tempi di connessione lunghissimi, che nel corso degli anni si sono fatti via via più veloci.

Ma ricordo anche com’era prima, anche se ero davvero piccolo. Il computer senza connessione, in cui per installare un file dovevi farlo con un floppy disk. Ricordo le telefonate, quando ancora i messaggi non si usavano. Ricordo la televisione, e le riviste. Beh, queste non sono cambiate molto, ma all’epoca erano in qualche modo più importanti.

Ricordo la sensazione di noia da bambino di una domenica pomeriggio di pioggia. La necessità di inventarsi qualcosa da fare, perché anche i cartoni a un certo punto annoiavano, e comunque non avevo il permesso di guardare la televisione per più di una o due ore al giorno.

Poi è arrivato internet, con le sue connessioni veloci, i video e i social network, e il mondo è cambiato.

Ma è cambiato davvero? Forse anche io, che ero un adolescente, stavo cambiando, quindi per me che mi stavo trasformando quotidianamente, il cambiamento del mondo sembrava poca cosa. Eppure, ripenso a com’era il mondo per come lo conoscevo da bambino, e tutte queste differenze non le noto.

Certo, ci sono un sacco di quelle che i miei nonni chiamano diavolerie tecnologiche, in giro. e che i miei genitori si sforzano ad imparare ad usare. Ma tecnologie a parte, gli esseri umani sono rimasti essenzialmente gli stessi. Oggi posso tenere il mio turno alle poste con una app, ma sento comunque persone litigare per chi è arrivato prima. Posso pagare il parcheggio dell’auto con il telefono, ma c’è sempre il tizio che mi ruba il posto anche se ha visto perfettamente che lì mi ci stavo mettendo io.

E poi, ovviamente, ci sono le persone popolari, quelle che un tempo chiamavamo VIP, e oggi Influencer. Ecco, proprio di questi vorrei parlare, perché sembra che oggi Internet abbia cambiato completamente i paradigmi della popolarità, ma la verità è che, come diceva Santajana, non c’è nulla di nuovo sotto questo cielo, tranne il dimenticato.

Di popolarità, infatti, si parla da quasi tremila anni, o almeno, i frammenti che parlano di questo fenomeno risalgono all’epoca Classica, ma sono fermamente convinto che se avessimo una macchina del tempo, e potessimo tornare all’epoca in cui l’essere umano era appena uscito dalla sua dimensione tribale, già questo fosse un argomento attuale.

Insomma, se vivevi ad Atene, o in un’altra città-stato, era impossibile che non conoscessi il Sofista di turno. Magari Protagora, che con le sue antilogie persuadeva il suo pubblico prima di una tesi, poi di quella opposta, oppure Ippocrate, che aveva la fama di guarire solo con le parole. E visto che nelle città-stato la Democrazia era una cosa seria, conoscevi sicuramente il candidato politico di turno a governare la città. Con l’invenzione della Democrazia, in effetti, la popolarità è diventata improvvisamente più importante dell’essere nati della giusta famiglia, ma anche del merito stesso.

Fu, infatti, lo stesso Platone a mettere tutti in guardia contro la Democrazia, che come sistema politico non premia il più competente, ma il più popolare. Buffo come in quasi tremila anni non l’abbiamo ancora capita, questa.

E se per secoli, e forse anche millenni, la popolarità fu un fatto prettamente politico, o religioso, dobbiamo aspettare l’invenzione del Capitalismo perché diventi anche un fatto economico, e per le masse. Nel corso del XX secolo, quindi, anche la popolarità diventa una merce di scambio. Molto presto, ci si rende conto che se tante persone guardano un fenomeno, o anche una singola persona, quel fenomeno o quella persona diventa un punto di riferimento. Nasce quindi il meccanismo delle sponsorizzazioni, ma non solo. La differenza tra ricchi e poveri deve essere accentuata: i ricchi devono avere qualcosa che li distingua dai poveri, e i poveri devono avere uno status quo a cui ambire. Ecco quindi che si sviluppano l’alta moda, e il mercato del lusso in generale.

Ma la popolarità non è riservata ai ricchi: c’è il mondo dell’intrattenimento che mescola le carte in tavola. Il cinema prima e la televisione poi portano alla ribalta personaggi che altrimenti sarebbero stati sconosciuti. Ma proprio perché sono così popolari, di fatto anche loro partecipano a quel gioco sociale di cui si parlava prima: danno alle masse l’illusione che chiunque potrebbe essere come loro.

Ed è così diverso, io mi domando, da quello che si vede oggi? La popolarità appare sempre più accessibile, ma sappiamo tutti benissimo che sono solo una piccolissima parte delle persone che ce la fanno davvero. Gli altri restano sospesi nel limbo del forse se mi impegno di più ce la farò.

Perché quelli che oggi sono Influencer sono quelli che ieri erano le star di Hollywood. Di George Clooney o Marilyn Monroe ce ne sono davvero pochi. Poi ci sono quelli che recitano nelle serie tv, e che hanno contratti più o meno duraturi. Poi ci sono quelli che ogni tanto fanno qualche spot. E poi ci sono tanti, tantissimi che fanno solo la fame, di provino in provino.

Ma la vera domanda che dovremmo farci è: sono davvero così influenti? Così capaci di creare dei modelli? Di influenzare le masse? Forse, o forse no. Ma danno a noi persone comuni dei modelli da seguire, o da cui discostarci. Ci danno delle persone da prendere come riferimento, o da insultare in modo spicciolo. Perché forse, alla fine, il valore della Popolarità è fine a se stesso, completamente autoreferenziale, e allo stesso tempo capace di influenzare l’intera società.

Ricordo quando non mi veniva naturale

Lo scorso weekend ero impegnato a insegnare in un Master di Comunicazione, e mentre parlavo di tecniche di dialogo è emerso quella che forse è una delle obiezioni più frequenti in questo contesto.

Quando uso queste tecniche mi sembra tutto così artefatto e innaturale. Non mi sento me stesso.

L’obiezione è perfettamente lecita. Quando impariamo a fare qualcosa di nuovo non viene mai naturale. Si tratta sempre di qualcosa di strano, artificiale. Voglio dire, se hai la patente probabilmente ti ricorderai che le prime volte che salivi in macchina dovevi pensare a girare la chiave di avviamento. Dovevi concentrarti, mentre premevi la frizione e decidevi qual era la marcia che volevi inserire. Dovevi prestare particolare attenzione mentre rilasciavi la frizione, e allo stesso tempo agivi sull’acceleratore.

Oggi, probabilmente, se hai la patente anche solo da qualche mese, non devi più pensare a queste cose. Il 100% della tua concentrazione è sulla strada, oppure, se sei una persona incosciente, sul cellulare. Ma di sicuro non sul gioco della frizione. Non su quanto stai calibrando il peso sull’acceleratore.

Spesso ci rifugiamo dietro a un sono fatto così, solo per celare l’inadeguatezza che sentiamo nei confronti di qualcosa di nuovo. Ogni volta che apprendo qualcosa (e questo è vero soprattutto nel mondo della comunicazione) mi sembra che il mio comportamento diventi innaturale. E se lo sento io, probabilmente, lo percepiscono anche gli altri. Hanno l’impressione che io stia recitando.

Poi, come diceva giustamente De Andrè, passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, e c’è un momento in cui non ci pensi più. In cui il comportamento diventa spontaneo. Perché anche se forse non te lo ricordi, c’era un periodo della tua vita in cui non sapevi guidare. Uno in cui non sapevi leggere. Uno in cui non eri in grado di mangiare in autonomia. Di parlare. Di camminare. In cui anche solo muovere una gamba, o una mano, era una sfida contro te stesso.

Il mio comportamento vi sembra artificiale?

Questa è la domanda che ho fatto all’aula, per ricevere risposta negativa.

Eppure, dall’inizio di questa lezione ho deliberatamente utilizzato la mia comunicazione per influenzare le dinamiche d’aula. Vi ho chiesto se potevamo darci del tu, per ridurre fin da subito la distanza relazionale tra di voi. Mi sono posizionato davanti alla cattedra, per evitare ostacoli. Ho utilizzato la comunicazione analogica, usando storie, metafore, modulando la voce e usando il mio non verbale per suscitare in voi delle reazioni emotive. Ho usato lo sguardo, per catturare la vostra attenzione. E tutto questo l’ho fatto in modo deliberato, esattamente come stamattina ho preso la macchina, e ho deliberatamente guidato fino a qui.

Ogni volta che affrontiamo un cambiamento importante, c’è un momento in cui il risultato ci appare innaturale. Perché la spontaneità, alla fine, non è che l’ultima fase del vero apprendimento, quello in cui è diventato acquisizione.

I Social sono pieni di idioti

Questo è un post che non ti piacerà, perché contiene tante brutte verità. Che come dico spesso, sono solo punti di vista, e per questo motivo, dopo averlo letto, potrai pensare che si tratta solo di mie opinioni, e continuerai ad andare avanti nella tua vita come se nulla fosse.

E la mia opinione riguarda il mondo dei Social Network, e potrebbe essere riassunta in questo modo: sono una gran bella cosa, ma la gente non li sa usare, e quindi arrivano a perdere il loro significato. Naturalmente, non sto parlando di te nello specifico, ma di tutti gli altri, puoi stare tranquillo.

Le persone di cui parlo, quando si siedono dietro a un computer e iniziano a scrivere, perdono molte inibizioni. Fanno e dicono cose senza rendersi conto di ciò che stanno facendo. Delle conseguenze delle loro azioni.

Mi considero un grande appassionato di tecnologia. Mi accendo quando sento parlare di alcune delle ultime novità del mondo dell’Innovazione, e ne immagino le potenzialità quando diventeranno diffuse. Ma in un certo senso, proprio perché ne sono così appassionato ne vedo anche i limiti. Perché queste tecnologie, nella maggior parte dei casi, rischiano di essere alienanti, allontanando l’essere umano da quella che è la sua vita.

Un esempio molto semplice lo vivo nella mia esperienza da futuro papà. Oggi come oggi, il genitore medio al momento del parto è più concentrato sull’immortalare il momento in una fotografia, che nello stare vicino al partner, che oltre a soffrire di dolori non indifferenti, ha bisogno del suo supporto, sia fisico che emotivo. Ecco, catturare un momento in una foto può sembrare un fatto innocuo, di pochi istanti, ma ci porta via da un contesto emotivamente carico, quello del parto, per congelarlo attraverso il freddo filtro di un cellulare.

Insomma, per avere un ricordo fotografico, perdo l’opportunità di creare un vero ricordo.

Poi il figlio arriva (la figlia, nel mio caso), e i Social si riempiono di foto della bimba, il cui diritto di   viene ceduto alle piattaforme in cambio di una manciata di Likes che servono solo ad alimentare la vanità dei genitori.

E come accade a tutti, anche quella bella bambina cresce, va a scuola, diventa adolescente. E visto che una privacy non l’ha mai avuta, dove sta il problema se condivide i suoi momenti intimi su Instagram? Ma magari è un filo più abbondante del normale, o troppo alta, o troppo bassa, o troppo perfetta. Ed ecco che arrivano gli hater, che la insultano, e la bullizzano. Hater che sono come lei, insultati e bullizzati a loro volta.

E lei magari conosce quel ragazzo che le dice di non preoccuparsi, che la fa stare serena. Magari ci va anche a letto, e perché no, gli manda anche qualche nudo artistico via Telegram, perché a tutti piace piacere, e non c’è motivo per negare al proprio morosetto un ricordo di una bella vista. Ma lui, che a sua volta non si rende conto di quanto questo gesto sia importante manda le foto a tutti i suoi amici.

Perché i Social sono pieni di idioti, e noi abbiamo una scelta abbastanza semplice. Possiamo essere idioti anche noi. Possiamo essere quelli che condividono le foto dei figli. Che insultano gli altri, protetti da un nickname. Che fanno girare le foto dei capezzoli di una ragazzina.

Oppure possiamo scegliere di essere responsabili. Ma a che pro? Essere idioti è più divertente, dopo tutto. Non è a questo che servono i Social?

Certo che ho i Pregiudizi

Sono sicuro che almeno una volta nella vita sia capitato anche a te.

Succede più o meno a tutti, insomma. Tu te ne stai lì, tranquillo, e lasci che il mondo vada più o meno per la sua strada, quando commetti l’atroce errore di esprimere la tua opinione su un argomento. A quel punto, arriva quel tizio che passava di là, e inizia a spiegarti perché hai torto, e lui ha ragione. E tu, naturalmente, che pensi di avere ragione a tua volta, inizi a discutere con lui, fino a quando non alzi le braccia al cielo in frustrazione. Al che, lui, subdolamente si rifugia dietro all’ultima linea di difesa che mettiamo in piedi.

Ecco, lo vedi? Hai un pregiudizio.

Oppure, come mi ha effettivamente scritto una persona in un commento ad un post su LinkedIn (cito testualmente):

“Ti stai arrampicando sugli specchi spudoratamente. Anche tu sei convinto della tua OPINIONE e non prendi minimamente in considerazione la possibilità che ci sia del vero nella questione”.

Di solito, quando accade qualcosa del genere ci limitiamo a mandare la persona a quel paese, frustrati nelle nostre intenzioni, o dalla situazione in generale. Perché dentro di noi lo sappiamo, quando ci dicono quella cosa, hanno ragione. Davvero si tratta di un pregiudizio. Un’opinione.

Ciò che non vogliono vedere, di solito, è che anche il loro punto di vista lo è altrettanto, ma facciamo un passo indietro.

Come ho già scritto diverse volte, ciascuno di noi costruisce la propria rappresentazione del mondo, attraverso quelle che in psicologia vengono chiamate Credenze. Nome forse più neutro rispetto a Pregiudizi e Opinioni, ma che di fatto le comprende entrambe: tutto ciò che pensiamo di sapere del mondo non è che una nostra rappresentazione, e una conoscenza oggettiva, o definitiva, non esiste. Non a caso, due delle Psicotrappole del Pensiero individuate da Giorgio Nardone sono proprio l’Illusione della Conoscenza Definitiva e il Mito del Ragionamento Perfetto. E ancora meno a caso, in queste trappole cadono ancor di più le persone particolarmente intelligenti, che, in qualche modo, è proprio da quell’intelligenza che sono tratte in inganno.

Lo avrai sperimentato anche tu. Ci sono quelle persone che parlano senza avere idea di ciò che stanno dicendo, le cui opinioni sono basate squisitamente sul sentito dire, e poi ci sono quelle che hanno fatto un’estesissima ricerca in materia, e probabilmente potrebbero prendere una laurea ad honorem. Ma non farti ingannare dalle apparenze: la verità di questo secondo gruppo non è più vera di quella del primo. In entrambi i casi si tratta solo, a ben vedere, di opinioni.

Insomma, come diceva già Watzlawick, se anche ammettiamo l’esistenza di una realtà oggettiva, questa è di fatto inconoscibile, perché ciò che ne otterremo sarà sempre e solo una rappresentazione.

In questa logica è facile vedere come tutto ciò che conosciamo rientra nella dimensione del pregiudizio, dell’opinione. Insomma, non importa quanto abbiamo approfondito un argomento, o quanto abbiamo studiato. Ciò che sappiamo non sarà altro che una nostra, personalissima rappresentazione della realtà, potenzialmente in disaccordo, quindi, con quella di qualcun altro.

Qualcun altro che non avrà scrupoli a dirci che abbiamo dei pregiudizi, e in effetti non c’è nulla di male in questo. Ebbene sì, abbiamo delle opinioni. L’importante è saperlo, e in qualche misura essere anche disposti a cambiarle. No, non quando leggiamo un tizio su internet che ci dice che ci sbagliamo, questo di solito non fa che rinforzarle.

Però è utile, se non altro, avere una mente aperta alle varie possibilità. E il capire come costruiamo le nostre credenze, sicuramente, ci aiuta a farlo meglio.

Scemo chi Legge (sì, esatto, proprio tu)

Oggi parlo di Politica, e la soddisfazione non me la toglie nessuno. La soddisfazione di dare dello stupido a tutti. Ai nostri politici, e alla gente che li vota; perfino a me stesso. Ma soprattutto a te, te che stai leggendo in questo momento.

Sei uno stupido.

O stupida, naturalmente, oggi siamo così attenti ad essere politically correct, e inclusivi, da dimenticarci come funziona la lingua italiana: quando parlo con un lettore impersonale uso il maschile, che in Italiano equivale a un genere neutro. E tutta quest’attenzione alle cose inutili la distoglie da quelle importanti. Ma sto divagando, permettimi di spiegarti perché sei uno stupido, o stupida.

Tra i molti contesti in cui la comunicazione viene usata, e studiata, trovo quello politico uno dei più affascinanti. Come spesso accade, anche in questo ambito non c’è nulla di davvero nuovo, ad esempio nei concetti di monopolizzare i Mass Media per influenzare le persone (in passato era la televisione, oggi è internet), o nell’avere un nemico comune, contro cui unire la massa. Ma anche il far leva sulle emozioni più viscerali, quelle che ci spingono all’azione prima ancora che il pensiero arrivi alla parte moderna del nostro cervello, e lo scatenare l’effetto folla.

Insomma, sei uno stupido e lo sono anche io, perché l’essere umano è in balia di se stesso, ed entrambi siamo facilmente manipolabili da qualcuno che sa come farlo. E alcuni politici sono molto bravi in questo. Il nome di Trump, negli Stati Uniti, balza alla mente, ma come non citare anche Salvini e Di Maio?

Mi torna in mente una citazione dal film Men In Black che descrive in modo allarmante la nostra società.

Perché tanti misteri? La gente è matura, l’accetterebbe.
Una persona è matura: la gente è un animale ottuso, pauroso e pericoloso, lo sai anche tu.

In comunicazione, in effetti, si parla di effetto folla, ad indicare il condizionamento che subiamo quando ci troviamo all’interno di un gruppo di persone, che ricordiamoci, può essere orchestrato anche da un singolo oratore. Senza dimenticarci, poi, l’information bubble, tipica dei sistemi informatici: ogni volta che visito una pagina e mi informo su un argomento, tutti i principali strumenti (a partire da Facebook e Google) tenderanno a mostrarmi altre informazioni coerenti con quella che ho già visualizzato.

Mettiamo insieme tutte queste cose, e ci rendiamo conto che senza nemmeno capire cosa sta succedendo ci troviamo galvanizzati nelle nostre opinioni, circondati da persone che la pensano come noi, e in balia di chi sappia utilizzare questi strumenti per il proprio tornaconto. Insomma, siamo degli stupidi, perché anche se sappiamo come funziona (beh, io lo so almeno) facciamo molta fatica ad andar fuori da questo meccanismo.

Se non ci credi, vai a visitare una pagina Facebook che si chiama Abolizione del Suffragio Universale, poi mi dici.

Insomma, dal mio punto di vista, la democrazia ha fallito. Finché l’uomo medio parlava di calcio e pontificava sulle scelte degli allenatori nelle osterie di paese, non c’era problema. Oggi persone che hanno studiato all’Università della Vita, ma anche persone comuni, che fanno vite normali, scrivono opinioni sui social su come si debba costruire un ponte, su quale debba essere la politica internazionale dell’Italia, sui vaccini. Persone che con la loro attività influenzano altre persone, aiutando il gioco politico. E hanno il mio stesso diritto di voto.

E tu sei lo stupido, il volano che ha permesso alla democrazia di fallire. E visto che sei stupido, il diritto di voto non lo meriteresti,  così come non meriti la capacità di mettere bocca su decisioni che non sei in grado di prendere. Ma se anche, per assurdo, io e te fossimo persone serie, che non si fanno condizionare dal gioco politico, che vanno oltre questa manipolazione gretta, a cosa servirebbe? Solo ad essere le uniche due persone sane, in un mondo dominato dagli stupidi.

D’altra parte, in un mondo di idioti, l’unico vero idiota è l’intelligente.

C’era un tempo in cui ero un Introverso

Proprio qualche giorno fa, mentre tenevo un corso di comunicazione, e ragionavo con la classe su cosa volesse dire comunicare meglio, è emerso uno spunto che in questi casi è forse il più frequente.

Vorrei avere sempre la risposta pronta, mi ha detto la persona in aula.

Quando sento queste cose mi viene da sorridere. Sorrido perché se da una parte denotano una comprensione davvero superficiale di cosa significhi comunicare (ma d’altra parte io sono lì per insegnarglielo), dall’altra mi ricordano molto me stesso, per come ero alcuni anni fa. Perché se da una parte mi piace definirmi un Ambiverso, dall’altra sono costretto ad ammettere che non sono sempre stato così, e forse è proprio per questo che lo spunto che ho riportato è quello che mi tocca più dal profondo, e che rende così piacevole per me la risposta. Alla fine, è un po’ la storia della mia esperienza di vita.

Da bimbo ero quel ragazzo che faceva fatica a socializzare. Non perché fossi timido o impacciato, ma perché tutto sommato mi piaceva starmene in compagnia. Osservandomi in retrospettiva, ero un buon gregario: quel bimbo prima, e ragazzo poi che non stava mai sul palcoscenico, ma che manteneva sempre una presenza di sottofondo nei gruppi. Sapevo andare d’accordo con i miei coetanei, anche se in generale mi piaceva tenermi in disparte.

Come dicevo poco fa, non ero timido, o impacciato. Anzi, ero abbastanza sicuro di me. Non ho mai avuto una grande paura delle relazioni sociali. Certo, un po’ di timidezza c’era, soprattutto nei primi momenti di relazione. Quel po’ di insicurezza che, fatti salvi gli estroversi incalliti, tutti hanno quando per la prima volta chiedono a un gruppo di bambini nel cortile se possono unirsi a giocare con loro, per poi sciogliermi poco dopo, adattandomi in maniera quasi liquida alle dinamiche di gruppo. Se si giocava a calcio e serviva un portiere io facevo il portiere, tanto a calcio non è che giocassi così bene. Se si giocava a nascondino non volevo prendere, perché nessuno vuole prendere, e allora si faceva la conta. Per poi diventare un adolescente impacciato, uno di quelli che è più veloce a raccogliere le battute degli altri che a inventare le proprie. Uno che sogna le ragazze più belle insieme a tutti gli altri, ma alla fine finisce con un’altra, molto più simile a lui. Insomma, uno normale.

Posso solo definirmi introverso. Uno che chiedeva più che dire. Uno che ascoltava, piuttosto che parlare. Quando vai a scuola non è una dote particolarmente vincente, devo ammetterlo. Nei gruppi sociali, soprattutto quelli da adolescente, non ti rende popolare.

Non lo ero.

E non mi dispiaceva. Sì beh, ci sono alcuni momenti in cui ho desiderato essere quel ragazzo bello e magnetico, che tutte le ragazze inseguono. Non posso negarlo. Ma quella è stata una fase, oggi sono un uomo felicemente sposato, e per fortuna l’ormone impazzito è passato.

Insomma, se da una parte ero uno che amava anche stare al margine dei gruppi sociali, dall’altra non riuscivo a capacitarmi del perché ci fossero persone così agili, che avevano sempre qualcosa da dire, o battute da fare. Insomma, come mai quelle persone avevano sempre la risposta pronta e io no?

Sono passati alcuni anni da allora. E in effetti, il salto più grande l’ho fatto proprio quando ho iniziato a studiare comunicazione. Se è vero, infatti, che avere sempre qualcosa da dire ti aiuta quando sei bambino, o adolescente, il mondo del lavoro funziona in altro modo. Tutti hanno qualcosa da dire, e l’ascolto improvvisamente diventa merce rara. Chi ascolta davvero sono ben poche persone, e questa in qualche modo diventa l’arma dell’introverso. Chi ascolta può parlare usando le parole degli altri, senza esporre se stesso, ma guidando una conversazione, ad esempio. Chi ascolta sa cose che chi parla non sa.

Chi ascolta sa persuadere, e quindi sa guidare dolcemente al cambiamento. Chi parla può diventare anche aggressivo nel suo gesto, ma questo non fa che opporgli nuove resistenze.

Insomma, il punto, ho imparato, non è tanto avere sempre qualcosa da dire. Perché se ascolti tanto le cose, poi, si dicono da sole.

Il Curioso Compulsivo

Noi ci ridiamo e ci scherziamo, ma questa è una storia vera.

Penso di essere una persona dagli strani difetti. Mi immagino in quel contesto un po’ peculiare che è quello del colloquio di lavoro, e quando il selezionatore fa la fatidica domanda “Qual è il tuo peggior difetto?” io non dico che sono troppo perfezionista. Oppure che mentre lavoro non mi accorgo del tempo che passa. No, rispondo con cose bizzarre. Racconto che sono un pigro cronico. O che sono un bugiardo. O magari, ammetto di essere un curioso compulsivo.

E che male c’è, direte voi? Beh, signore e signori, mettetevi comodi e lasciate che ve lo racconti.

La curiosità viene spesso associata a una dimensione di pregio. Essere un curioso viene tipicamente considerato un fatto positivo. L’essere compulsivi, d’altra parte, è riconosciuto come patologia mentale. A me piace pensare di vivere questa mia bizzarra condizione da entrambe le prospettive, sia quella positiva che quella patologica.

La settimana scorsa ero in ferie, e incidentalmente mi trovavo in una zona d’Italia in cui il telefono prendeva molto poco. La spiaggia era estremamente affollata, e questo disturbava ulteriormente la ricezione. Tra una cosa e l’altra facevo davvero fatica a collegarmi ad internet. Ed ecco, leggendo un libro mi confronto con un tema che vorrei approfondire. Quindi, come faccio normalmente, accendo il telefono e parte una breve ricerca su google. Dopo alcuni minuti sono stato costretto a desistere. Fino a sera, quando sono tornato al wifi dell’albergo, sono rimasto con la lampadina accesa.

Nel retro della mia mente un pensiero fisso: dovevo approfondire quell’argomento.

Devo essere sincero: questa strana patologia mentale mi ha aiutato molto nella mia vita. Sono sempre stato abituato a studiare, perché questo saziava la mia curiosità. Ho avuto ottimi risultati accademici, e anche nel lavoro la spinta a scoprire cose nuove mi porta ad essere costantemente formato, e ad avere, in generale, una cultura da uomo rinascimentale, o multipotenziale, oppure da polytropon, come Omero definì Ulisse.

D’altra parte si tratta anche di una cosa che, mi rendo conto, può far vivere male. La curiosità è, dopotutto, un vaso che è impossibile riempire. Ogni scoperta quotidiana apre a mille nuove possibilità future. Cosa scegliere? Cosa sacrificare, quando ci sono così tante cose interessanti da conoscere? Non ho una vera risposta, ma posso solo dire che, ad oggi, godo della scoperta quotidiana, riuscendo in qualche modo a non preoccuparmi per quella futura.

Chi lo sa, forse un giorno avrò bisogno di andare dallo psicologo per riuscire a curarmi da questa mia malattia. Ma per oggi mi accontento di essere come sono, e tutto sommato ringrazio di esserlo!

Devo finire entro oggi, e non ho ancora iniziato

Walt Disney diceva che la differenza tra un Sogno e un Obiettivo è una data di scadenza, e io non potrei essere più d’accordo con lui.

Non so se Walt Disney fosse un pigro cronico come lo sono io, ma mi rivedo davvero in questa frase. Io sono uno che fa sogni e progetti, e che non ha paura di pensare in grande. Ma se non metto una data di scadenza a quel sogno, o a quel progetto, magari mi ci metto anche a lavorare, ma non lo porterò mai a termine.

La mia vita è costellata da questi desideri mai realizzati. Ho scritto molti racconti di narrativa, ad esempio, che non si sono mai concretizzati in un libro, o in un serio progetto web. Ho iniziato numerose volte a frequentare la palestra, senza mai dedicarci più di un paio di mesi. Ho anche iniziato a leggere libri che non ho mai portato a termine, e dopo anni sono ancora parcheggiati sul mio comodino, in attesa di essere ripresi in mano.

Può essere facile bollare questo comportamento come una mancanza di costanza da parte mia. Non ho la pretesa di essere una persona coerente, e, semplicemente, se il mio trasporto verso l’obiettivo non è abbastanza grande, mi è facile rimandare le cose.

Ora, potrei addentrarmi a ragionare sulla matrice di Eisenhower, ma non è questo lo scopo del mio articolo. Il punto è, viceversa, come diceva Walt Disney, che fino a quando non so che la scadenza per fare una cosa si avvicina, non mi metto a farla.

Vedi il caso di #BEVEMO, il pilota di un format di eventi che sto organizzando. Avevo deciso che l’avrei inaugurato a inizio luglio. Sono stato costretto a rimandarlo, a causa delle (mancate) disponibilità mie, del locale e dei relatori all’evento, ma il mio obiettivo era di farlo prima delle ferie di agosto. E per questo mi sono impegnato seriamente, comunicandolo al mondo, che sarebbe stato entro luglio.

Insomma, se so che devo fare una cosa entro un certo tempo la faccio. Proprio oggi che scrivo questo articolo, voglio aver definito la scaletta dell’evento, e molto probabilmente domani, quando questo articolo sarà pubblicato, saranno definite sia la data definitiva, che la scaletta. Ed entro la fine della settimana, sarà attivato anche il servizio di registrazione all’evento, attraverso Eventbrite.

Insomma, darmi una scadenza, e impegnarmi pubblicamente per quella scadenza è il modo che ho per spingermi all’azione. Ma questo lo faccio anche tutte le settimane quando pubblico un nuovo articolo, o una newsletter: spesso mi trovo a scriverli all’ultimo momento. Perché se c’è una cosa che devo fare entro oggi, potrei non aver ancora iniziato, ma sono sicuro di riuscire a portarla a termine.

Lavorare sotto pressione, per me, è la soluzione. Lavoro di più, e lavoro meglio!