Esistono aziende che muoiono, aziende che nella loro vita cambiano di proprietario, e aziende che, nonostante una vita magari anche molto lunga, restano all’interno di una famiglia. Le aziende famigliari sono una delle realtà più comuni del tessuto imprenditoriale italiano, ma per quanto esse possano essere eccellenti, si trovano inevitabilmente ad affrontare dei momenti di crisi, che corrispondono ai passaggi generazionali.
Uso la parola crisi, non a caso, perché un cambiamento così profondo scuote l’azienda nella sua interezza, e accade molto spesso che questo cambiamento generi più problemi che opportunità, tanto che spesso si accende un ritorno di fiamma di un ex titolare, ormai in pensione, che però rientra in azienda per salvarla dalla gestione a suo dire scellerata dei figli.
Il passaggio generazionale corrisponde quindi a un momento incredibilmente delicato in cui si scontrano interessi spesso contrastanti: quello di un titolare di lasciare qualcosa in eredità ai propri figli, ma al tempo stesso il desiderio che quel qualcosa continui a funzionare al meglio, perché è esso stesso un figlio. Ma anche una volontà più o meno marcata da parte degli eredi di seguire le orme del padre, e di continuare l’impresa di famiglia. E solo se tutti questi interessi trovano un loro modo di integrarsi in modo armonioso, allora si può dire che il passaggio generazionale abbia avuto successo.
Il problema
Vengo contattato dal direttore generale, nonché secondogenito del titolare di una media impresa del nord-est, con la richiesta di supportare l’azienda durante la fase di passaggio generazionale. In azienda oltre a lui e al padre sono coinvolte anche la madre, come responsabile dell’ufficio che si cura sia dell’amministrazione che delle risorse umane, e l’unica sorella, alla direzione dell’ufficio marketing.
Già durante la prima riunione conoscitiva emergono con chiarezza alcuni dei problemi principali: il titolare, vicino ai 70 anni, è il classico archetipo di padre padrone, per cui l’azienda è un’estensione della famiglia, e vive con profondo scetticismo il mio intervento. La moglie, di poco più giovane, è uno specchio quasi perfetto della volontà e dei desideri del marito. La primogenita, che forse nei sogni del padre avrebbe dovuto guidare l’azienda in realtà sembra totalmente disinteressata, ricopre il ruolo di responsabile in modo del tutto superficiale, è spesso assente, e in generale non si dimostra in grado di sostenere il peso della responsabilità del suo ruolo. Per questo il ruolo di direttore generale è ricaduto sul secondogenito. Purtroppo si tratta di un ruolo solo nominale, poiché tutte le decisioni aziendali vengono ancora prese dal padre, nonostante questi gli riconosca che è lui quello con il senso per il business, in famiglia.
La situazione appare delicata e quantomai fragile. Il titolare dell’azienda manifesta un astio deliberato, che si traduce in una squalifica del mio lavoro, che ribadisce in modo veemente: loro non hanno bisogno di me, un aiuto esterno non sarebbe mai in grado do comprendere la complessità della loro situazione, e quindi di aiutarli chiaramente. Di fronte all’appoggio della madre, e all’indifferenza totale della sorella, il figlio minore che mi ha coinvolto sembra voler cedere, e allontanarmi dall’azienda.
Il lavoro svolto insieme
Probabilmente il titolare si sarebbe aspettato delle contro argomentazioni sul fatto che il mio lavoro fosse utilissimo per loro, quindi rimase completamente spiazzato quando ammisi, candidamente, che aveva ragione: non ero assolutamente in grado di cogliere la complessità dell’azienda, e per questo motivo desideravo semplicemente ascoltare la sua storia, la storia della sua azienda, e il suo sogno per il suo futuro, tenendo conto di quella transizione che stavano attraversando.
In modo quasi automatico iniziò a recuperare aneddoti dei suoi quasi quarant’anni dedicati a curare quel suo terzo figlio, condendoli in modo disordinato con i suoi obiettivi per il futuro: un’azienda prospera, che i suoi figli amassero e curassero come aveva sempre fatto lui. Era così catturato dalla sua stessa narrazione che non ebbi praticamente bisogno di stimolarlo ad andare avanti. Notai che la figlia provava fastidio a quella storia, mentre il figlio imbarazzo, misto ad orgoglio. Alla fine, dopo quasi quindici minuti di racconto, ricapitolai per sommi capi ciò che mi aveva raccontato, ponendo particolare accento sui suoi obiettivi. Accolse la prova della mia attenzione in modo incredibilmente positivo, e si sciolse definitivamente nei miei confronti poiché, come mi avrebbe confidato solo molti mesi dopo, avevo dimostrato un interesse per la sua creatura che nessun consulente esterno, fino a quel giorno, le aveva dedicato.
A quel punto iniziò il lavoro vero, che avrebbe coinvolto principalmente il titolare e i suoi due figli. Da una parte fui costretto a guidare il padre ad accettare un fatto che già conosceva da tempo: sua figlia non era minimamente interessata all’azienda di famiglia, né al marketing. Anzi, era una grande appassionata di Yoga, e dedicava praticamente ogni momento libero a seguire corsi, anche come insegnante. Per questo motivo, mi feci mediatore tra padre e figlia, per permettere a lei di sganciarsi da quell’attività, dedicandosi alla sua passione, non senza un investimento del padre, per aiutarla a metter su la sua piccola palestra. La sua iniziale indifferenza si trasformò in sincera gratitudine.
L’altro grande problema su cui lavorammo, e che richiese ben più tempo fu la relazione tra padre e ormai l’unico figlio rimasto in azienda. Con il pretesto di una formazione sulla leadership, accompagnai lui e gli altri manager dell’azienda, compreso il neo-assunto responsabile dell’area marketing, a gestire in modo più positivo la relazione con un titolare così controllante. In particolar modo, durante una sessione di coaching con il figlio, questi si rese conto che per poterlo lasciare a briglia sciolta, il padre aveva bisogno di essere sicuro che non avrebbe sfasciato l’azienda, che dal suo punto di vista significava prendere delle decisioni così come avrebbe fatto lui. Questa consapevolezza, insieme all’acquisizione di alcuni strumenti di dialogo persuasorio, permise al figlio di guadagnare, finalmente, la fiducia del padre, che iniziò ad essere sempre meno presente in azienda. La moglie mantenne, invece, la direzione del suo ufficio, con l’obiettivo di arrivare alla pensione, visto e considerato che aveva già trovato una persona in grado di succederle con successo, che fu invitata a partecipare al nostro percorso di leadership.
I risultati
Il lavoro con l’azienda durò complessivamente poco meno di un anno, durante il quale la transizione avvenne in modo morbido e quasi invisibile, un po’ come un tuffatore che rompe la superficie dell’acqua quasi senza sollevare nessuna goccia. Il padre aveva definitivamente abbandonato le redini dell’azienda, mantenendo solo una posizione onoraria come Presidente, senza però entrare nel merito della gestione.
Il figlio, sotto mio suggerimento, con cadenza regolare coinvolgeva il padre nelle decisioni strategiche dell’azienda, per chiedergli aiuto e assicurarsi che fosse d’accordo. Quest’azione, che potrebbe in apparenza denotare debolezza, permetteva a quel delicato equilibrio che avevamo costruito insieme di alimentarsi: il padre non doveva sentirsi tagliato fuori, ma coinvolto, e sarebbe stato lui stesso (come già iniziava a fare) a tirarsi sempre più indietro anche nell’offrire aiuto al figlio.
La figlia aveva avviato con le sue piccole soddisfazioni la sua palestra di Yoga. L’attività era forse molto meno redditizia rispetto all’impresa di famiglia, ma la faceva sentire realizzata, senza contare che deteneva già parte delle quote della società, e quando fosse giusto il momento ne avrebbe ereditate ancora.
Ecco quindi che una situazione di difficoltà iniziale, in cui da ormai alcuni anni si viveva un’impasse continua, si è arrivati in circa dieci mesi ad affrontare un cambiamento così importante e profondo, semplicemente grazie a una piccola spinta dall’esterno.