Lavorare ad un cambiamento organizzativo è divertente e stimolante. Le situazioni sono incredibilmente diverse e variegate, poiché possono riguardare ricambi generazionali, così come ristrutturazioni organizzative, ma anche solo l’introduzione di un nuovo software aziendale, o la crescita da 10 a 30 collaboratori. Insomma, nella vita di ogni azienda esistono momento di rivoluzione che la riguardano nella sua interezza.
In alcuni casi in cambiamento accade, e le persone progressivamente si riassestano in un nuovo equilibrio, talvolta disfunzionale per l’azienda stessa. In altri casi viene progettato e seguito, magari anche da una società di consulenza prestigiosa, ma affrontato solo dal punto di vista tecnico, anziché da quello delle persone. Più raramente, anche se questo è sicuramente il modo più efficace per farlo, solo i collaboratori stessi dell’azienda che vengono coinvolti in modo da diventare i veri agenti del cambiamento. Devo dire, però, che mi trovo molto più di frequente ad intervenire nei primi due casi, quando il cambiamento è già avvenuto, che nel terzo. E sono i casi in cui i problemi sono più evidenti.
Il problema
Vengo contattato dal titolare di una PMI, una realtà produttiva che è sul mercato da ormai una sessantina d’anni. La storia è abbastanza comune: l’azienda è stata creata dal padre, ed è stata organizzata come un laboratorio artigianale. Lui ormai quasi trent’anni fa è entrato in azienda, e non senza qualche difficoltà è riuscito a trasformare la realtà da artigianale a industriale. Ha acquistato macchinari, assunto persone e ha permesso all’azienda di assestarsi su alcuni milioni di fatturato l’anno. Lui ha superato da un po’ i cinquanta, e pur vedendo la pensione ancora lontana ha già iniziato a far crescere la figlia nell’azienda, che si è laureata da poco, e lavora nell’ufficio marketing.
Di recente questo imprenditore, più illuminato di molti, ha sentito l’esigenza di discostarsi un po’ dalla gestione dell’azienda, per avere più tempo per sé, e iniziare davvero a godersi la sua maturità, sua moglie, la sua auto e la sua barca a vela. Ha quindi assunto un manager esterno, di grande esperienza, con cui ha concordato un percorso di crescita. Spinto anche dalla figlia, che pur cruda gode della sua massima fiducia, ha accettato di provare a spingere sulla crescita dell’azienda attraverso una piccola ma significativa riorganizzazione degli uffici, attraverso la nomina di responsabili, e all’assunzione di alcune persone soprattutto per i reparti vendite e marketing, con l’obiettivo di aumentare in modo considerevole il fatturato nel giro degli anni successivi.
Il motivo per cui vengo contattato è che, a un’anno dall’assunzione del manager, l’imprenditore non ha visto cambiamenti significativi nel fatturato, nonostante l’aumento dei costi di gestione. Questo ha generato situazioni frequenti di conflitto con il manager, alimentate quando possibile dal fatto che i collaboratori dell’azienda, con i quali il titolare ha un rapporto molto stretto, spesso vanno da lui a lamentarsi della nuova gestione, e del fatto che vengono loro chieste cose fuori dalle loro competenze. Lui cerca di mediare, e di spingere i collaboratori all’azione, ma in fondo lì capisce, e quindi sente di non essere così incisivo, anche perché loro continuano a essere scarsamente collaborativi.
Prima di proporre un piano d’azione ho sentito il bisogno di sentire il parere del manager, riguardo alla sua apparente incapacità di raggiungere gli obiettivi che erano stati concordati. Egli era consapevole, e decisamente frustrato dalla situazione, trovando che la principale resistenza la vedeva da parte dei collaboratori storici dell’azienda. Le persone che aveva promosso, inoltre, non si stavano rivelando all’altezza, e stava seriamente prendendo in considerazione di assumere al loro posto dei manager un po’ più preparati, anche se vista la grande competenza operativa che dimostravano era restio a farlo. In questo, sosteneva, il fatto che il Titolare facesse da confidente per le lamentele dei collaboratori non era certo d’aiuto, poiché creava un clima in cui sembrava che lui fosse il cattivo.
Il lavoro svolto insieme
Vista la situazione, era necessario per me muovermi con estrema cautela. I problemi, infatti, apparivano esistere su vari livelli: da una parte c’era un imprenditore che, senza volerlo, non faceva che creare astio tra i collaboratori e il general manager dell’azienda; dall’altra, il detto manager non era stato in grado di costruire e generare a cascata una leadership che permettesse all’azienda di raggiungere i nuovi obiettivi. In tutto questo, i collaboratori storici dell’azienda si trovavano in una situazione che li aveva improvvisamente destabilizzati, e quindi reagivano come normali esseri umani: resistendo al cambiamento. In questo contesto ho strutturato il mio intervento in modo da affrontare il problema da tre prospettive differenti.
Con il general manager e i nuovi responsabili ho avviato un laboratorio sulle soft skills per la leadership, a cui ha partecipato anche la figlia del titolare, pur ricoprendo un ruolo operativo. Impostai il lavoro come un laboratorio, anziché una formazione, per ottenere la collaborazione del manager, in modo che fosse lui stesso a condividere la sua grande esperienza con quelli che erano leader di primo pelo (pur essendo eccellenti operativi). In realtà, fu l’occasione per fetta anche per lui per smussare gli spigoli di uno stile un po’ troppo autoritario. Questo laboratorio mise realmente a disposizione degli strumenti logici e comunicativi ai responsabili, che finalmente furono in grado di comprendere e gestire alcune delle dinamiche che stavano vivendo.
Con i responsabili ho anche avviato delle sessioni di coaching individuali, in modo da aiutarli a gestire la propria realtà quotidiana. Il problema principale che vivevano era che molti dei loro nuovi collaboratori erano, di fatto, ex colleghi e parigrado, e questo li rendeva, anche visti quelli che spesso erano anni di amicizia e rapporti paritari, del tutto incapaci di assumere il giusto ruolo nella gestione della loro funzione. Va menzionato, in questo senso, in particolare il problema vissuto dal responsabile dell’ufficio marketing, che non era davvero in grado di gestire la figlia del titolare.
Infine, con il manager e l’imprenditore ho organizzato degli update mensili sullo stato di avanzamento lavori, con l’obiettivo di pianificare strategicamente il da farsi passo passo. In realtà, queste occasioni non erano che incontri di coaching, camuffati da riunioni strategiche individuali, con l’obiettivo di ottenere la loro alleanza e il loro supporto, e anche alcuni cambiamenti. Proprio in questi contesti, infatti, l’Imprenditore ha compreso che il suo interventismo era controproducente, e se ascoltava delle lamentele avrebbe dovuto semplicemente zittirle, e riportare il collaboratore a seguire la gerarchia. Contestualmente, il manager trovò nelle nostre riunioni molti spunti per comunicare meglio con il titolare, e renderlo costantemente soddisfatto del lavoro che stava svolgendo, nonostante per i risultati avrebbe dovuto aspettare ancora qualche mese.
I Risultati
Il mio intervento in azienda venne visto inizialmente con forte scetticismo, ma dopo i primi tre incontri (tre mesi di lavoro) si era creato un clima estremamente disteso sia con il titolare, che con il manager e i responsabili, che aveva prodotto a cascata un effetto positivo importante sul clima in azienda: i collaboratori, anche quelli storici e più resistenti avevano finalmente compreso l’importanza di muoversi verso i nuovi obiettivi aziendali, che erano stati nuovamente condivisi con loro, e i responsabili erano riusciti a risolvere la gran parte dei problemi di relazione che li assillavano ai nostri primi incontri.
Il mio intervento in azienda è durato complessivamente sei mesi, al termine dei quali ho lasciato un’azienda che stava vedendo una spinta inaspettata di fatturato e di business in generale, fattore che stava motivando il manager e i responsabili a valutare nuovi inserimenti, per coprire quello che era diventato un carico di lavoro eccessivo da gestire per le risorse attuali. In tutto questo, il titolare aveva preso l’abitudine di trascorrere in azienda solo 4 giorni la settimana, e di trascorrere circa una settimana al mese in vacanza con la famiglia.