Quando si lavora da un po’ di tempo in azienda, tipicamente ci si trova a crescere, sia nelle competenze professionali, sia in termini di ruolo e responsabilità. Non sempre, però, soprattutto nelle piccole aziende, questo si traduce automaticamente in un aumento di stipendio. E se spesso per ovviare a questo problema ci si trova a guardarsi in giro e a farsi fare delle offerte da parte di altre aziende, con l’obiettivo di ottenere una controfferta dalla propria, non sempre questa è una soluzione accettabile. Infatti contiene un messaggio potenzialmente disfunzionale: ho bisogno di minacciare di andarmene per essere riconosciuto. Questo messaggio, soprattutto in una cultura come quella italiana in cui la mobilità lavorativa è scarsa, ad esempio rispetto ai paesi anglosassoni, può avere effetti negativi sulle relazioni in azienda, e quindi sulla permanenza. Tipicamente, infatti, chi riceve una controfferta abbandona comunque l’azienda entro un anno.
Il problema
La richiesta mi viene mossa da parte di un collaboratore di un’azienda, che seguo in un percorso di coaching che l’azienda stessa gli ha messo a disposizione. Casi come questo sono particolarmente delicati, perché è possibile che gli interessi del mio cliente, l’azienda, siano in contrasto con quelli del mio interlocutore diretto, il collaboratore stesso. Se, quindi, voglio certamente aiutare chi vuole ottenere un aumento di stipendio a riuscirci, dall’altra questo non deve creare problemi ulteriori di gestione per l’azienda stessa.
In questo caso l’azienda ha riconosciuto a più riprese il valore del collaboratore, spesso anche facendo promesse di aumento, che però non si sono mai concretizzate. Nonostante questo, il collaboratore ha continuato a crescere sia in competenze che in responsabilità, pur con un certo grado di malcontento, aspettandosi un aumento mai arrivato.
Il lavoro svolto insieme
Il lavoro si è svolto in due fasi successive. Nonostante il desiderio del collaboratore di vedere riconosciuto il proprio valore dall’azienda, egli era bloccato in una situazione di immobilismo proprio a causa di un suo pregiudizio: visto che l’azienda aveva promesso un aumento, esso sarebbe dovuto arrivare senza che lui facesse nulla. Il primo incontro è stato quindi dedicato a superare questa resistenza, attraverso specifiche tecniche comunicative, e degli esercizi da svolgere funzionali a quest’obiettivo. Il principio è che quando ci troviamo inchiodati in una situazione a causa dei nostri stessi ideali, vogliamo essere abbastanza flessibili da metterli in discussione, non con l’obiettivo di cambiarli a tutti i costi, ma se non altro per capire se possiamo e vogliamo farlo.
Già dal secondo incontro, il collaboratore si è dichiarato motivato nel chiedere attivamente un aumento di stipendio, e quindi abbiamo definito una strategia che non richiedesse l’uso di un BATNA (Best Alternative To Negotiated Agreement, ovvero un’alternativa da seguire in caso la rinegoziazione fallisca, come ad esempio un’offerta da parte di un’azienda concorrente). Il motivo è duplice: da una parte il BATNA è un rischio, per i motivi già descritti, in quanto mette a rischio la posizione in azienda (dentro la quale, comunque, il collaboratore è motivato a rimanere); dall’altra costituisce un’importante limite psicologico, perché non ci incentiva a ottenere nulla più del BATNA stesso.
I Risultati
Analizzando i comportamenti disfunzionali in passato, il collaboratore si è reso conto che aveva di fatto accettato una rinegoziazione unilaterale del proprio contratto da parte dell’azienda nel momento in cui aveva accolto un aumento di responsabilità senza che questo si traducesse in un aumento di stipendio, oltre a rimanere bloccato dai suoi stessi ideali. Abbiamo quindi strutturato una proposta di aumento che evidenziasse i risultati raggiunti fino a quel momento, e abbiamo concordato come il momento migliore per avanzarla fosse proprio una delle richieste di assunzione di responsabilità che, il collaboratore sapeva, gli sarebbe stata mossa di lì a qualche giorno.
In quella circostanza il collaboratore si sarebbe dovuto sedere a tavolino con il suo manager, chiedendogli se la promessa di aumento fosse ancora valida, o se riscontrasse che la sua performance non fosse adeguata. Questa seconda ipotesi era naturalmente molto improbabile, visti i trascorsi degli ultimi mesi, ma avrebbe permesso al collaboratore di rifiutare ulteriori responsabilità, con l’obiettivo di migliorare la sua performance. Se, come probabile, il manager gli avesse detto che la promessa era valida, insieme avrebbero dovuto concordare le tempistiche dell’aumento.
Questo è quello che è effettivamente avvenuto, e già dal mese successivo il collaboratore ha visto riconosciuti i propri sforzi, sia attraverso un aumento del netto mensile, sia vedendo riconosciuto un bonus performance alla fine dell’anno.
L’azienda in questo contesto non ha avuto nulla da eccepire sul mio operato come consulente, in quanto non ho creato alcun danno, anzi, ho contribuito alla valorizzazione e alla motivazione di un collaboratore ritenuto comunque eccellente, evitando al contempo il rischio di perdere una risorsa divenuta chiave per l’azienda.