Le aziende sono fatte di persone.
Mi capita spesso di ripetere questa frase, tanto che l’ho resa il titolo provvisorio del libro sulla leadership che sto scrivendo. Di per sé si tratta di una considerazione ovvia, me ne rendo conto, ma ad uno sguardo meno superficiale è tutt’altro che scontata: significa che solo le aziende che investono davvero sulle proprie persone, e le riconoscono e valorizzano nella loro individualità, sono in grado di creare un vantaggio competitivo consolidato.
Perché di questo si tratta. Al netto delle ideologie, di ciò che è etico, di ciò che è giusto, viviamo in un contesto sociale ed economico in cui l’unico reale valore aggiunto non replicabile che ha un’azienda per creare un proprio vantaggio competitivo sono le persone.
Trovo che troppo poche aziende comprendano fino in fondo questo principio, ma con quelle che ci riescono, è possibile raggiungere dei risultati altrimenti impensabili.
Il problema
Entro in contatto con l’Ufficio Risorse Umane di un’azienda di dimensioni medio-piccole, ma con tutto il desiderio di crescere. Si tratta di una bella realtà, con una cultura aziendale solida e basata su valori semplici e condivisi, in cui i collaboratori hanno in massima parte un atteggiamento responsabile e propositivo. Il problema sollevato è che l’azienda ormai da un paio d’anni cerca sul mercato figure chiave che non riesce a trovare per crescere ulteriormente, e raggiungere gli obiettivi di business prefissati, tanto che si è creata una situazione di tensione tra la proprietà e l’ufficio risorse umane che, pur avendo lavorato adeguatamente fino a quel momento, viene visto come il responsabile di questo mancato risultato.
Già nella nostra prima chiacchierata emerge il fatto che il problema non è nel mercato del lavoro, nè il fatto che queste figure siano introvabili. Nel corso degli ultimi due anni, infatti, sono state fatte ben nove assunzioni diverse, per ricoprire due ruoli, tutte fallimentari.
Anche i canali provati sono stati diversi: dal classico annuncio sui vari siti dedicati alla ricerca di lavoro, alla collaborazione con agenzie interinali, all’head hunting: in tutti i casi sono stati selezionati candidati sulla carta perfetti, ma che nel miglior caso non più di sei mesi dopo hanno abbandonato l’azienda, oppure sono stati allontanati.
Si tratta, in realtà, di un problema che ha l’azienda in generale: in qualche modo sembra che se un nuovo assunto riesce a superare lo scoglio del primo anno di lavoro, poi la sua permanenza in azienda diventerà a lungo termine, mentre la maggior parte delle nuove reclute abbandona o viene allontanata prima.
Il lavoro svolto insieme
Quello vissuto dall’azienda è un problema più comune di quanto non si pensi, e dopo una prima fase di analisi il motivo è risultato evidente a tutti, con la conseguenza che la tensione tra l’ufficio Risorse Umane e la proprietà si è immediatamente ridotta. A crearlo è stata proprio quella cultura aziendale di cui l’azienda andava fiera, e che di fatto allontanava tutti quei nuovi assunti che non erano pronti a inserirsi in essa.
Una volta compreso qual era il problema, è diventato quindi importante comprendere come gestirlo. Attraverso un esercizio di problem solving che ha coinvolto tutti i manager dell’azienda, e in prima linea le Risorse Umane e la proprietà, è emersa una dinamica ricorrente: una volta inserita una nuova persona in azienda, a essa venivano normalmente assegnati degli obiettivi da raggiungere con lo stesso grado di autonomia delle persone che lavoravano lì da anni.
I nuovi collaboratori, quindi, anziché essere accompagnati a conoscere e comprendere la cultura aziendale, avevano la percezione di essere lasciati soli, e questo si traduceva in molte dimissioni spontanee, e in alcuni casi in cui le persone venivano considerate non adeguate, perché non in grado di raggiungere gli obiettivi come i manager si aspettavano.
Abbiamo quindi organizzato quello che di fatto era un laboratorio per la leadership, in cui io e i manager abbiamo sviluppato una sorta di protocollo di onboarding, della durata di 3 mesi, in cui le persone venivano accompagnate a conoscere e comprendere la cultura aziendale. Tale processo, così spalmato nel tempo, si configurava come la naturale continuazione dell’inserimento, e permetteva di comprendere davvero le reali competenze del nuovo assunto, il suo cultural fit con l’azienda, e quindi in generale valutare l’efficacia dell’assunzione.
Si era scelto di suddividere in processo in tre step: dopo la prima settimana sarebbero state scartate quelle persone riconosciute come palesemente inadatte al ruolo, anche per competenze tecniche. Dopo il primo mese si sarebbe fatta una prima valutazione anche sulle sue competenze trasversali, e al terzo mese una valutazione definitiva che coinvolgesse anche la coerenza tra gli obiettivi personali e la cultura aziendale.
I risultati
Il primo esperimento svoltosi con questo modo di lavorare venne proposto proprio sulle tre figure chiave da inserire per lo sviluppo aziendale. Venne quindi avviata una selezione usando semplicemente LinkedIn, e vennero escluse a priori solo quelle persone che non avevano alcuna esperienza che denotasse le competenze (tecniche) richieste. Con restanti venne quindi organizzato un colloquio telefonico conoscitivo, per spiegare il ruolo, e proporre una sorta di esercizio per valutare le competenze tecniche necessarie, da portare ad un successivo colloquio di persona. In questo modo solo una metà delle persone effettivamente sentite per telefono parteciparono effettivamente al colloquio di persona, dimostrando le proprie competenze.
Il colloquio divenne quindi un semplice modo per conoscesi e raccontare gli aspetti salienti della cultura aziendale, oltre a discutere e definire il range retributivo. A tutti i partecipanti, dodici persone in tutto vennero spiegate le modalità dell’assunzione, e le tre milestone di una settimana, un mese e tre mesi concordate. Una persona rifiutò subito, e le altre iniziarono a lavorare. Alla fine della prima settimana, solo a 10 persone venne chiesto di continuare. Dopo il primo mese ad altre 4 persone venne chiesto di lasciare l’azienda. Dopo i tre mesi, i collaboratori rimasti erano 3.
Si aprì a quel punto il problema se mantenerli tutti, o escluderne uno, visto che in teoria c’erano due sole posizioni aperte, ma poiché tutti e 3 venenro riconosciuti meritevoli si decise di confermarli tutti, accettando un piccolo investimento supplementare per consolidare un progetto che in futuro avrebbe sicuramente avuto bisogno di maggiori risorse.
Ad oggi, dopo oltre due anni da quel lavoro, quelle tre persone sono diventate il core team del motore innovativo di quell’azienda, insieme ad altri che si sono aggiunti e sono stati selezionati con le stesse modalità. Questo processo è stato esteso con soddisfazione a tutti gli uffici dell’azienda, che ha ridotto il tempo critico dall’assunzione per il turnover da un anno a tre mesi, e ha complessivamente ridotto di circa il 20% i costi complessivi legati ai nuovi inserimenti in azienda.