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Il mercato del lavoro è rotto

Un paio d’anni fa, prima della pandemia, lavoravo felicemente con un cliente che aveva un problema piuttosto comune: faticava a trovare persone con il giusto mix di competenze da assumere nella sua azienda.

E parliamoci chiaro, non stiamo parlando di ingegneri che avrebbero avuto la necessità di mandare dei razzi su Marte, ma di “semplici” commerciali junior, con competenze base nella creazione di presentazioni, e conoscenza almeno della lingua inglese, unita alla disponibilità a viaggiare molto, anche all’estero, per lavoro.

No, questo non è un articolo in cui ti racconto come ho magicamente risolto il problema usando solo una graffetta, del filo interdentale e una gomma da masticare. Qui è dove voglio ragionare sul fatto che viviamo in un contesto in cui il mercato del lavoro è fondamentalmente rotto. Lo era prima della pandemia, figuriamoci adesso, che le aziende non aspettano altro che marzo per licenziare le zavorre.

Nella tua azienda, potresti averci fatto caso, ci vogliono settimane, quando non mesi, per portare una nuova persona in azienda, mesi e settimane in cui la posizione resta scoperta.

Poi c’è tutto il mondo dei “recruiter brutti e cattivi che non ti mandano nemmeno il feedback“, e dei “candidati brutti e cattivi che rispondo agli annunci a muzzo“. Se sei su LinkedIn sai perfettamente di cosa sto parlando, non far finta di nulla.

Ci sono i Dr Jeckill durante i colloqui che si trasformano in Mr Hide non appena il loro nome va sul contratto di lavoro a tempo indeterminato. Durante i colloqui di selezione, ho notato, sono tutti bravi e perfetti. Perfino i difetti diventano un valore aggiunto. Per non parlare delle aziende, che sono sempre leader di settore, fino a quando non scopri che sono anni che se non chiudono in rosso è solo grazie a magheggi contabili.

La verità è che il gioco della selezione è a perdere.

Le aziende voglio persone, di solito le più brave possibili spendendo il meno possibile. E non parlo degli assurdi stagisti con esperienza, ma aziende serie e sane che non mettono il range di stipendio sugli annunci perché “se lo metto tanto il candidato vede solo la cifra più alta”.

I candidati per la maggior parte vogliono solo un lavoro. Meglio se li paga meglio rispetto al precedente e se il loro capo non è psicolabile come il capo precedente. Sì, lo so, ci sono anche quelli che inseguono un obiettivo professionale, che vogliono solo capire se la loro prossima azienda sarà un covo di matti come la precedente, oppure riusciranno a farci qualche passetto in avanti.

E non parliamo degli intermediari, degli head hunter, delle società di recruiting. Il loro cliente, non dimentichiamolo mai, è l’azienda. Non il candidato. La persona è il prodotto ad essere venduto.

Sì, lo so, non tutti sono così. Ci sono anche i bravi, ci sono gli etici, gli onesti.

Ma la verità è che è il processo ad essere pensato male. Forse non è il mercato del lavoro ad essere rotto, ma proprio le aziende.

Valore è solo un punto di vista

Immagina di avere tra le tue mani un lingotto d’oro di 10kg. Bella sensazione, vero? Probabilmente in questo momento sei una persona ricca. Ma se ti trovassi in mezzo al deserto, e fossi in procinto di morire di sete, immagino che lo scambieresti volentieri per una bottiglia d’acqua ghiacciata.

Questa è una metafora molto semplice, persino banale, per spiegare il concetto di valore. E se l’economia classica per decenni si è sforzata di definire i meccanismi per attribuire valore alle cose, alla fine della giornata dobbiamo mettercela via: quello di valore è un concetto del tutto soggettivo.

Il salto logico successivo è che il prezzo, che nella nostra società ha lo scopo di creare una scala di misurazione del valore, non è quindi che un parametro soggettivo, spesso attribuito in modo arbitrario.

La risposta classica dell’economia occidentale a questo spinoso problema è in realtà piuttosto semplice: acquisti un bene solo se il valore che tu percepisci pre esso è pari o inferiore al suo prezzo. E questa è spiegazione è tanto semplice quanto falsa, visto che, a ben vedere, se anche fossimo in grado di definire con chiarezza il valore che percepiamo per un dato bene o servizio, non saremmo in grado di attribuire a quella sensazione un prezzo.

La verità è ch più ci penso, e più ritengo che in infinite situazioni ci sia margine per negoziare qualcosa, proprio perché il concetto di valore è soggettivo. Nelle scorse settimane, ad esempio, mi è capitato di proporre la lettura gratuita del libro che sto scrivendo. Se fossi uno scrittore affermato di romanzi, questa opportunità avrebbe probabilmente un valore inestimabile. Non è questo il caso, ma per i miei dieci selezionati lettori, questa è l’opportunità di leggere gratuitamente un libro che parla di argomenti che a loro interessano.

Dal mio punto di vista, i miei vantaggi sono decisamente maggiori: posso avere un parere sul mio libro da delle persone che sono l’archetipo delle mie buyer personas, ma anche suggerimenti e consigli per approfondire. Senza contare che avere qualcuno che legge i miei nuovi capitoli mi aiuta a mandare avanti un progetto che altrimenti rischierebbe di restare trascurato per mesi.

Di tutte queste cose, del resto, a loro non interessa. Ecco, questi per me sono gli scambi di valore migliori: ciascuno ottiene qualcosa che reputa utile dall’altro, percependo ciò a cui deve rinunciare come marginale rispetto a ciò che sta ottenendo, e questa è una cosa che è molto difficile fare, con i soldi.

Negoziare, per me, vuol dire proprio questo. Capire il modo migliore di creare valore reciproco, sacrificandone il meno possibile.

Il cuore del mio lavoro

Oggi mi hanno messo in difficoltà.

Accade relativamente spesso. Il tipico responsabile è un conoscente, qualcuno con cui per via indiretta mi trovo a condividere del lavoro. E la modalità è sempre la stessa. In tono dimido, quasi scusandosi, mi confessa

“in effetti non ho capito davvero che lavoro fai”

Ora, ho lavorato nel marketing per anni. Studio comunicazione, dovrei essere in grado di raccontare quello che faccio meglio di chiunque altro. Sono forse un calzolaio con le scarpe rotte?

Sì e no.

Sì perché è oggettivamente vero: non so spiegare davvero quello che faccio, non in poche parole. No perché quello che faccio non è, realmente, spiegabile. Non fino in fondo. Oggi ho provato a rispondere raccontando quello che è il cuore del mio lavoro.

Non, quindi, ciò che faccio, nelle sue mille e relativamente prosaiche declinazioni, ma quello che sta al centro di tutto: la ricerca. Ebbene sì, il cuore del mio lavoro è studiare la scienza dietro i fenomeni comunicativi, e poi tradurre quella scienza in modo che sia comprensibile, e utilizzabile ad altre persone.

Uso la parola scienza non a caso. Ho scritto una tesi di laurea sulla metodologia della ricerca scientifica, e nel mio lavoro uno il metodo dell’action-research, particolarmente efficace per studiare i sistemi complessi, come quelli degli esseri umani.

Non sono chino sui libri, quindi (per quanto quella sia una parte che apprezzi molto), ma è attraverso il mio stesso lavoro che sviluppo le teorie, le sperimento, le falsifico. Ho raccontato che i miei ambiti di ricerca principali sono la Negoziazione e la Leadership, ma anche il Cambiamento Organizzativo.

Mi ha chiesto quante persone nel mondo ci sono che fanno questa cosa?

Che io sappia nessuno: la mia è una ricerca di frontiera. Esistono altri approcci, altri modelli, altri strumenti, ma questo è solo mio.

Sarà per questo che faccio fatica a raccontare, davvero, quello che faccio.

Elegia di un cazziatone

Ricordo che ero seduto al mio posto, nell’open space. Le ore scivolavano lentamente in un’atmosfera pesante e carica di noia. Intorno a me diversi colleghi, per lo più ragazzi della mia età, altrettanto stanchi e annoiati. Era un’altra epoca, una delle mie brevi avventure da lavoratore dipendente.

D’un tratto entra lei. Formalmente è una mia collega, ma per questo progetto è la mia responsabile. Entra con il passo veloce e il volto paonazzo e contorto da una smorfia.

Su un primo istante non ci faccio nemmeno caso. Almeno fino a quando non si mette in piedi di fianco a me, ad una distanza troppo ridotta perché sia considerata confortevole, sopratttutto visto che inizia ad urlare.

Sento il mio volto che diventa rosso e non so nemmeno perché. Sta parlando di un lavoro consegnato al cliente e fatto male dal sottoscritto. Urla e sbraita, e non mi dà nemmeno il tempo per replicare. Se ne va prima che possa dire nulla, lasciando dietro di sé un’atmosfera di gelo e imbarazzo. I miei occhi sono nuovamente fissi sul computer, ma questa volta non vedo nemmeno quello che c’è scritto.

Lei urla, e io non riesco a dirle che quel lavoro non l’avevo mai fatto, e l’ho svolto al massimo delle mie capacità. Non riesco a dirle che le ho chiesto aiuto più volte, ma lei era troppo impegnata a portare avanti altro lavoro importante per darmi del supporto. Non riesco a dirle che prima di mandarlo al cliente le ho ho inoltrato il lavoro, ed è lei che mi ha detto “va benissimo così, mandalo“.

Per usare una metafora comune, sono appena stato buttato sotto il treno. Il cliente si è lamentato con la mia responsabile che ha scaricato la colpa su di me, e quello che ci ha rimesso la faccia sono io.

Da quel giorno sono passati parecchi anni, e ogni tanto mi torna in mente. Accade tutte le volte che un cliente mi racconta di un grave errore commeso da un suo collaboratore, o di una sfuriata avvenuta. E mi si accende quella sensazione di rabbia e frustrazione che ho provato quella volta.

Quel piccolo, quasi invisibile momento in cui si passa da un mondo in cui tutti si va nella stessa direzione, a uno in cui si è noi contro di loro. Dipendenti contro azienda.

Mia figlia è disobbediente

Tra poco più di un mese mia figlia compirà due anni.

Chi è genitore sa che questa è un’età del tutto particolare. Non come l’adolescenza, certo (per quella ho tempo di prepararmi), ma non è un caso se vengono chiamati i terrible twos: quelli che fino a pochi giorni fa erano i nostri angioletti ubbidienti diventano all’improvviso bestie assatanate, che fanno capricci per ogni cosa, che dicono sempre no, e che mettono seriamente alla prova la nostra pazienza.

E quindi via di sgridate, occasionali sculaccioni, e arrabbiature varie.

Da parte mia penso di essere fortunato: mia figlia è stata testarda fin dal primo momento, ha sempre fatto le cose come decideva lei, ma c’è da dire che io e mia moglie non abbiamo mai nemmeno particolarmente investito sul renderla un angioletto obbediente. Quello che vivo oggi, quindi, non è che la naturale evoluzione del suo percorso di crescita: quello di una bambina di due anni che sta imparando (con grande orgoglio del suo papà, lo ammetto) a esprimere concetti sempre più complessi, e quindi a pensare in modo più complesso alla realtà. Realtà che ha bisogno di eplorare con relativa libertà.

Certo, io e mia moglie viviamo sempre con un occhio vigile per evitarle di procurarsi danni permanenti, ma non ci facciamo grossi problemi se scivola, se si sporca, se per giocare si chiude le dita nei cassetti. Non l’abbiamo mai fatto, in effetti.

Non credo nell’obbedienza come virtù. Anzi, credo che abbia molto più senso imparare la disobbedienza. Ciò che vogliamo insegnare a nostra figlia è che le azioni hanno delle conseguenze, e le poche regole che le imponiamo sono pensate per evitare quelle negative. E viviamo con serenità il fatto che possa scegliere di infrangere quelle regole, e pagarne le conseguenze.

Questo perché molto più che all’obbedienza, crediamo alla responsabilità. E se deve affrontare una certa dose di dolore fisico, frustrazione ed emozioni negative per comprenderla, direi che questo è un prezzo decisamente misero.

Mia figlia è disobbediente, ma i suoi due anni non sono poi così terribili. Anzi, si preannunciano, tutto sommato, responsabili.

Quello che le donne (non) vogliono

Il livello del mio Spritz al Campari scende lentamente, accompagnato dal vociare delle persone. L’oliva l’ho sempre tenuta per ultima. Sì, lo so che molti preferiscono mangiarla all’inizio, ma per me è un piccolo momento di godimento che mi tengo alla fine. Vicino a me una conoscente, amica di un’amica, si lancia con la sua voce appena troppo alta nell’apologia del femminismo. Spiega a tutti i presenti il concetto di soffitto di cristallo, che le donne devono scegliere tra carriera e famiglia, del gender pay gap. Spiega che ci sono dei lavori in cui le donne non possono nemmeno entrare. Che un presentatore uomo una volta si è messo lo stesso vestito per un anno intero e nessuno se n’è accorto, mentra se una donna si mette per due giorni due vestiti identici le danno della sciattona. Sciorina le percentuali sulle violenze domestiche sulle donne.

Sì, insomma, le solite cose.

Io la lascio parlare, dedicando almeno metà della mia attenzione al mio spritz. Ha ragione, ed il problema è proprio questo. Finché avrà ragione, femminismo sarà solo una parola pronunciata dagli uomini con disprezzo, come quando parlano del ciclo.

Provo ad aiutarla, e lo faccio con delle parole per cui mi odierà. Già lo so.

Ti invidio, le dico.

Ti invidio perché puoi scegliere tra carriera e famiglia. Io, come uomo, non posso. Devo dedicarmi alla carriera, oppure essere chiamato mammo.

Ti invidio, perché ci sono dei lavori in cui gli uomini non possono nemmeno entrare.

Ti invidio, perché hai un potenziale comunicativo, attraverso la tua immagine, che come uomo non ho. Se io mi metto lo stesso vestito per un anno, infatti, non se ne accorge nessuno, perché nessuno mi nota.

Ti invidio per le percentuali sulle violenze domestiche sulle donne, perché almeno se ne parla, mentre di quelle sugli uomini non parla nessuno.

Alla fine della giornata, le dico, solo cambiando prospettiva riusciremo a risolvere il problema. Le dico che può chiamarmi maschilista, perché credo che il fatto che l’uomo sia forte e dominante e la donna debole e indifesa sia esattamente il pregiudizio che vogliamo combattere, e io preferisco farlo raccontando la storia opposta.

Che l’uomo è quello debole e indifeso, e la donna forte e dominante.

Lei mi ringrazia, e insieme finiamo lo Spritz.

Da fuori è tutto più facile

Luca, nome di fantasia, mette la chiavetta nella macchinetta del caffè dell’azienda, che scivola fino in fondo facendo tintinnare le chiavi come se fossero il suono della campanella di fine ricreazione e noi giusto in ritardo per la lezione successiva.

Ho un rapporto ambivalente con la pausa caffè con i miei clienti. Amo il momento di convivialità rilassata, il senso di pausa informale. Odio quella sciacquarella marrone che nella maggior parte dei casi viene spacciata per caffè.

“Anche a me fa schifo questo caffè, ma almeno aiuta a sopravvivere al pomeriggio.” Questo lo dice Luca, bevendo a piccoli sorsi la bevanda nerastra che spigiona i suoi vapori miasmatici tutt’intorno.

Gli dico che se vogliono il premio per il peggior caffè che io abbia mai bevuto devono impegnarsi di più. Ride.

“Proverò davvero a fare quello che mi hai detto” prima di dire le parole si guarda intorno, con fare furtivo. Nessuno nei paraggi. “Quando racconti le cose sembra tutto facile. Ma poi ti ci trovi dentro, ed è tutto meno logico”

Certo, gli dico. E gli racconto il secondo assioma della comunicazione, gli spiego che le relazioni sono regole, che spesso rendono difficile fare la cosa giusta, o anche solo capire cosa sia. E che quindi un consulente la vedrà sempre più facile da fuori. Che io, però, cerco di aiutarli a costruire soluzioni che funzionino, nei loro sistemi di regole.

“Questa è una cosa che mi piace di te: si impara sempre qualcosa” Luca ha un tono di voce sicuro mentre pronuncia le parole, che non sono di circostanza, lo so.

Grazie, gli dico. E gli faccio i miei auguri per quando dovrà parlare con il suo capo.

Il Sogno del Manager

Lo conosco il sogno del manager.

Il mito del team perfetto, in cui tutti i collaboratori seguono con passione e dedizione la guida del loro leader. Il team in cui le persone sono autonome, e responsabili. Ma anche proattive e motivate. In cui le persone si fidano, tra di loro, e del loro capo.

Non ho mai conosciuto, ad oggi, un manager che rientrasse al 100% in questo sogno. Spesso basta un singolo collaboratore per spezzare l’incantesimo. Molto più spesso vedo l’incubo del manager, quello in cui le persone sono stanche e demotivate, fanno il minimo indispensabile, quando non si oppongono direttamente all’autorità del loro capo. Hanno bisogno di controllo e cazziatoni costanti anche per fare i lavori più semplici.

La soluzione facile, in questi casi, è pensare che la colpa sia dei collaboratori. Dell’organizzazione. Della politica. Della pandemia. Delle congiunzioni astrali. Ovviamente questa è una soluzione solo se l’obiettivo è mettersi la coscienza a posto, ma non risolve in alcun modo il problema.

La verità è che come manager hai la responsabilità della scarsa performance dei tuoi collaboratori a prescindere. Perché se un collaboratore non funziona in un ruolo, ci possono essere, sostanzialmente, due classi di motivi possibili.

Il primo è che quella persona è, semplicemente, la persona sbagliata per quella posizione. E non c’è niente di male, voglio dire. Se a causa di qualche bizzarra congiunzione astrale domani dovessi essere assunto per riparare lavatrici, in quel ruolo non potrei mai funzionare, e produrrei solo della grande insoddisfazione nei miei clienti.

Il secondo è che quella persona non viene messa nelle condizioni di dare il massimo.

Ecco, sarebbe facile pensare che solo nel secondo caso il manager potrebbe fare qualcosa, e comunque dovrebbe prima capire di quale delle due casistiche si tratta. In realtà, il problema è molto più semplice: basta creare uno spazio in cui i collaboratori possano dare il massimo, in modo da riconoscere i secondi e stanare i primi. E di nuovo, la responsabiità sta, a questo punto, nel trovare il modo di allontanarli.

Ed ecco, così, miracolosamente avverato il sogno del manager. L’unico problema è che per raggiungerlo ci si deve, effettivamente, impegnare.

Non è una questione di obiezioni

La parlantina del venditore è ricca e veloce. Non sono sicuro che attraverso Zoom riesca a cogliere la mia espressione annoiata. A guardarmi, in effetti, il mio volto sembra acceso di curiosità e di interesse, ma del resto faccio il coach, e quando ascolto qualcuno che parla, indosso in modo automatico questa faccia. Non è il tipo di abitudine che una piccolezza come una pandemia possa modificare.

Non sono sicuro su come dovrei comportarmi, al netto del fatto che mi è piuttosto chiaro che il servizio che sta cercando di vendermi non mi serve per nulla, e che di conseguenza qualunque offerta o prezzo possa volermi fare superiore al gratis non sarà adeguato. Potrei fermarlo qui, dirgli che la sua spiegazione è molto chiara, e mi ha permesso di capire che quel servizio non mi serve, dicendogli che non voglio rubargli del tempo. Oppure potrei fare il bastardo, stare al gioco, dargli l’impressione di aver chiuso la vendita, ma non sottoscrivere nessun contratto.

Rispetto il suo lavoro, e non provo dell’antipatia nei suoi confronti, quindi scelgo la prima. Grazie, gli dico. Il tempo che mi ha dedicato mi ha aiutato a capire che questa cosa non fa per me, gli dico.

Non voglio rubargli altro tempo, gli dico.

Ma no, lui non ci sta. E allora inizia con le domande. Sì, quelle domande a cui puoi rispondere solo sì, una sequenza infinita che alla fine, in virtù del principio di Coerenza ti porterà a dire l’unico sì che conta, quello alla firma del contratto.

Ok, io la possibilità te’ho data, ma tu hai deciso di non coglierla. Ora faccio il bastardo, e devi sono ringraziare te stesso e i corsi di Vendita Efficace che hai frequentato.

E ci prova, si vede che si impegna. Il suo disco di vendita è perfetto, smonta le mie obiezioni, una dopo l’altra, e mi costringe a dire una serie di sì. E io non mi preoccupo, anzi, sono perfettamente sereno. E lui scambia la mia serenità per sicurezza, pensa che io sia pronto. E allora me lo chiede: mi fa la proposta a cui non si può rifiutare. C’è anche lo sconto, valido solo per quel momento e tutto.

Al che io calo il carico da novanta. Te l’ho già detto, dico. Questo servizio non mi serve, dico.

Lui va in frantumi. Si guarda intorno, come a voler cercare qualche tecnica. Si inventa qualcosa, mi fa ancora qualche domanda. Io gli rispondo, sempre in modo educato. Alla fine mi chiede se conosco qualcuno che potrebbe essere interessato a questo servizio. Mi chiede se potrei passargli il contatto. Perché no? Gli dico. Alla fine non mi costa nulla.

Ci salutiamo, chiudiamo la telefonata. E io non gli mando nessun contatto.

Anche io ho una parte intollerante

C’è una parola, in particolar modo, su cui vorrei ragionare oggi, ed è tolleranza.

Tolleranza è una parola di cui ci si riempie la bocca. Si dice che si deve essere tolleranti verso il diverso, verso gli errori degli altri, o anche verso i propri. La verità è che questa parola a me non piace, non mi piace per nulla, soprattutto quando viene usata nei confronti di una persona.

Perché la parola Tolleranza, nella sua radice etimologica ha a che fare con la sopportazione di un peso, di qualcosa di sgradevole. Ed ecco, questa cosa per me ha poco senso per due motivi. Il primo è collegato con le ragioni per cui si definisce una persona un peso. Spesso, infatti, si parla dell’importanza (?!?) di tollerare chi ha una diversa nazionalità, religione, sessualità. Insomma, è come se si considerasse una persona sgradevole per il solo fatto che esiste, ed è nata o è stata educata in un certo modo.. Il secondo è che se proprio sono infastidito da qualcosa o qualcuno, tendo a fare qualcosa per risolvere la situazione.

Questa, almeno è l’idea. E se non riesco davvero a tollerare (o non tollerare) una persona per il solo fatto di essere nata in un determinato paese del mondo, questo non significa che non ci siano cose che mi si infilano sotto la pelle, e fanno uscire fuori tutta la mia intolleranza, e la mia chiusura. Si tratta, in effetti, di tutti quei comportamenti che il buon Carlo Cipolla definirebbe stupidi.

Per chi non lo conoscesse, il professore in questione ha scritto un breve e interessantissimo saggio che va a definire il concetto di stupidità, Dice, in buona sostanza, che un comportamento può sia aiutare che danneggiare, e può farlo con se stessi e con gli altri. Possiamo, quindi, costruire un diagramma cartesiano usando questi due assi, in modo da ottenere quattro quadranti:

  • gli intelligenti sono coloro che con il loro comportamento creano vantaggi sia per se stessi che per gli altri
  • gli sfortunati, o disgraziati, sono coloro che aiutando gli altri danneggiano se stessi
  • i banditi, viceversa, sono coloro che creano valore per loro stessi, danneggiando gli altri
  • gli stupidi, infine, sono coloro che con il loro comportamento danneggiano sia loro stessi che gli altri

Ok, riformulo. L’unico contesto in cui mi sento usare la parola tolleranza è quello della stupidità. E mi accontento di questa parola se si tratta di stupidità accidentale. Tutti, alla fine, possiamo commettere degli errori, anche io l’ho fatto e lo faccio, ci mancherebbe. L’upgrade all’intolleranza lo faccio quando la stupidità è deliberata.

Chi va in bicicletta di fianco alla pista ciclabile mi rende intollerante.

Chi fa coda nel traffico facendo manovre azzardate, salvo restare comunque incastrato come tutti, mi rende intollerante.

Chi passa il tempo a lamentarsi delle sue disgrazie mi rende intollerante.

Il punto è che se con le persone che si comportano in modo intelligente è facile avere a che fare, e disgraziati e banditi si possono gestire con le giuste armi, davanti agli stupidi siamo totalmente inermi. D’altra parte, una famosa e purtroppo anonima massima ci ricorda che discutere con certe persone è come giocare a scacchi con un piccione. Puoi essere anche il campione del mondo ma il piccione farà cadere tutti i pezzi, cagherà sulla scacchiera e poi se ne andrà camminando impettito come se avesse vinto lui.

Sono loro, gli stupidi, quelli che fanno uscire la mia intolleranza vera. Quelli che quando li incontro posso solo arrabbiarmi, perché non so cos’altro fare, se non insultarli. E quindi, se sei uno stupido, ti ringrazio, perché fai uscire una parte di me che altrimenti non avrebbe ragione di esistere.