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Il cuore del mio lavoro

Oggi mi hanno messo in difficoltà.

Accade relativamente spesso. Il tipico responsabile è un conoscente, qualcuno con cui per via indiretta mi trovo a condividere del lavoro. E la modalità è sempre la stessa. In tono dimido, quasi scusandosi, mi confessa

“in effetti non ho capito davvero che lavoro fai”

Ora, ho lavorato nel marketing per anni. Studio comunicazione, dovrei essere in grado di raccontare quello che faccio meglio di chiunque altro. Sono forse un calzolaio con le scarpe rotte?

Sì e no.

Sì perché è oggettivamente vero: non so spiegare davvero quello che faccio, non in poche parole. No perché quello che faccio non è, realmente, spiegabile. Non fino in fondo. Oggi ho provato a rispondere raccontando quello che è il cuore del mio lavoro.

Non, quindi, ciò che faccio, nelle sue mille e relativamente prosaiche declinazioni, ma quello che sta al centro di tutto: la ricerca. Ebbene sì, il cuore del mio lavoro è studiare la scienza dietro i fenomeni comunicativi, e poi tradurre quella scienza in modo che sia comprensibile, e utilizzabile ad altre persone.

Uso la parola scienza non a caso. Ho scritto una tesi di laurea sulla metodologia della ricerca scientifica, e nel mio lavoro uno il metodo dell’action-research, particolarmente efficace per studiare i sistemi complessi, come quelli degli esseri umani.

Non sono chino sui libri, quindi (per quanto quella sia una parte che apprezzi molto), ma è attraverso il mio stesso lavoro che sviluppo le teorie, le sperimento, le falsifico. Ho raccontato che i miei ambiti di ricerca principali sono la Negoziazione e la Leadership, ma anche il Cambiamento Organizzativo.

Mi ha chiesto quante persone nel mondo ci sono che fanno questa cosa?

Che io sappia nessuno: la mia è una ricerca di frontiera. Esistono altri approcci, altri modelli, altri strumenti, ma questo è solo mio.

Sarà per questo che faccio fatica a raccontare, davvero, quello che faccio.

Mia figlia è disobbediente

Tra poco più di un mese mia figlia compirà due anni.

Chi è genitore sa che questa è un’età del tutto particolare. Non come l’adolescenza, certo (per quella ho tempo di prepararmi), ma non è un caso se vengono chiamati i terrible twos: quelli che fino a pochi giorni fa erano i nostri angioletti ubbidienti diventano all’improvviso bestie assatanate, che fanno capricci per ogni cosa, che dicono sempre no, e che mettono seriamente alla prova la nostra pazienza.

E quindi via di sgridate, occasionali sculaccioni, e arrabbiature varie.

Da parte mia penso di essere fortunato: mia figlia è stata testarda fin dal primo momento, ha sempre fatto le cose come decideva lei, ma c’è da dire che io e mia moglie non abbiamo mai nemmeno particolarmente investito sul renderla un angioletto obbediente. Quello che vivo oggi, quindi, non è che la naturale evoluzione del suo percorso di crescita: quello di una bambina di due anni che sta imparando (con grande orgoglio del suo papà, lo ammetto) a esprimere concetti sempre più complessi, e quindi a pensare in modo più complesso alla realtà. Realtà che ha bisogno di eplorare con relativa libertà.

Certo, io e mia moglie viviamo sempre con un occhio vigile per evitarle di procurarsi danni permanenti, ma non ci facciamo grossi problemi se scivola, se si sporca, se per giocare si chiude le dita nei cassetti. Non l’abbiamo mai fatto, in effetti.

Non credo nell’obbedienza come virtù. Anzi, credo che abbia molto più senso imparare la disobbedienza. Ciò che vogliamo insegnare a nostra figlia è che le azioni hanno delle conseguenze, e le poche regole che le imponiamo sono pensate per evitare quelle negative. E viviamo con serenità il fatto che possa scegliere di infrangere quelle regole, e pagarne le conseguenze.

Questo perché molto più che all’obbedienza, crediamo alla responsabilità. E se deve affrontare una certa dose di dolore fisico, frustrazione ed emozioni negative per comprenderla, direi che questo è un prezzo decisamente misero.

Mia figlia è disobbediente, ma i suoi due anni non sono poi così terribili. Anzi, si preannunciano, tutto sommato, responsabili.

Quello che le donne (non) vogliono

Il livello del mio Spritz al Campari scende lentamente, accompagnato dal vociare delle persone. L’oliva l’ho sempre tenuta per ultima. Sì, lo so che molti preferiscono mangiarla all’inizio, ma per me è un piccolo momento di godimento che mi tengo alla fine. Vicino a me una conoscente, amica di un’amica, si lancia con la sua voce appena troppo alta nell’apologia del femminismo. Spiega a tutti i presenti il concetto di soffitto di cristallo, che le donne devono scegliere tra carriera e famiglia, del gender pay gap. Spiega che ci sono dei lavori in cui le donne non possono nemmeno entrare. Che un presentatore uomo una volta si è messo lo stesso vestito per un anno intero e nessuno se n’è accorto, mentra se una donna si mette per due giorni due vestiti identici le danno della sciattona. Sciorina le percentuali sulle violenze domestiche sulle donne.

Sì, insomma, le solite cose.

Io la lascio parlare, dedicando almeno metà della mia attenzione al mio spritz. Ha ragione, ed il problema è proprio questo. Finché avrà ragione, femminismo sarà solo una parola pronunciata dagli uomini con disprezzo, come quando parlano del ciclo.

Provo ad aiutarla, e lo faccio con delle parole per cui mi odierà. Già lo so.

Ti invidio, le dico.

Ti invidio perché puoi scegliere tra carriera e famiglia. Io, come uomo, non posso. Devo dedicarmi alla carriera, oppure essere chiamato mammo.

Ti invidio, perché ci sono dei lavori in cui gli uomini non possono nemmeno entrare.

Ti invidio, perché hai un potenziale comunicativo, attraverso la tua immagine, che come uomo non ho. Se io mi metto lo stesso vestito per un anno, infatti, non se ne accorge nessuno, perché nessuno mi nota.

Ti invidio per le percentuali sulle violenze domestiche sulle donne, perché almeno se ne parla, mentre di quelle sugli uomini non parla nessuno.

Alla fine della giornata, le dico, solo cambiando prospettiva riusciremo a risolvere il problema. Le dico che può chiamarmi maschilista, perché credo che il fatto che l’uomo sia forte e dominante e la donna debole e indifesa sia esattamente il pregiudizio che vogliamo combattere, e io preferisco farlo raccontando la storia opposta.

Che l’uomo è quello debole e indifeso, e la donna forte e dominante.

Lei mi ringrazia, e insieme finiamo lo Spritz.

Il Sogno del Manager

Lo conosco il sogno del manager.

Il mito del team perfetto, in cui tutti i collaboratori seguono con passione e dedizione la guida del loro leader. Il team in cui le persone sono autonome, e responsabili. Ma anche proattive e motivate. In cui le persone si fidano, tra di loro, e del loro capo.

Non ho mai conosciuto, ad oggi, un manager che rientrasse al 100% in questo sogno. Spesso basta un singolo collaboratore per spezzare l’incantesimo. Molto più spesso vedo l’incubo del manager, quello in cui le persone sono stanche e demotivate, fanno il minimo indispensabile, quando non si oppongono direttamente all’autorità del loro capo. Hanno bisogno di controllo e cazziatoni costanti anche per fare i lavori più semplici.

La soluzione facile, in questi casi, è pensare che la colpa sia dei collaboratori. Dell’organizzazione. Della politica. Della pandemia. Delle congiunzioni astrali. Ovviamente questa è una soluzione solo se l’obiettivo è mettersi la coscienza a posto, ma non risolve in alcun modo il problema.

La verità è che come manager hai la responsabilità della scarsa performance dei tuoi collaboratori a prescindere. Perché se un collaboratore non funziona in un ruolo, ci possono essere, sostanzialmente, due classi di motivi possibili.

Il primo è che quella persona è, semplicemente, la persona sbagliata per quella posizione. E non c’è niente di male, voglio dire. Se a causa di qualche bizzarra congiunzione astrale domani dovessi essere assunto per riparare lavatrici, in quel ruolo non potrei mai funzionare, e produrrei solo della grande insoddisfazione nei miei clienti.

Il secondo è che quella persona non viene messa nelle condizioni di dare il massimo.

Ecco, sarebbe facile pensare che solo nel secondo caso il manager potrebbe fare qualcosa, e comunque dovrebbe prima capire di quale delle due casistiche si tratta. In realtà, il problema è molto più semplice: basta creare uno spazio in cui i collaboratori possano dare il massimo, in modo da riconoscere i secondi e stanare i primi. E di nuovo, la responsabiità sta, a questo punto, nel trovare il modo di allontanarli.

Ed ecco, così, miracolosamente avverato il sogno del manager. L’unico problema è che per raggiungerlo ci si deve, effettivamente, impegnare.

Curiosità. Insoddisfazione. Sofferenza. Serenità.

Il manager si alza, e mi ringrazia, e io ho giusto il tempo di prendere un appunto rapido, prima che inizi la prossima sessione di coaching, con un suo collega. Le giornate di questo tipo scorrono veloci, senza che ci sia davvero il tempo per tirare il fiato. Spesso, quando finiscono, mi limito a stendermi sul letto mio, o della camera d’albergo in cui mi trovo, a lasciare che il fumo si dissipi, lentamente, dal mio cervello.

Mentre le dita scorrono veloci sulla tastiera, recupero dalla memoria i passaggi salienti della nostra chiacchierata. La sessione è stata molto interessante, perché mi ha permesso di contribuire alla validazione di una teoria a cui sto lavorando da un po’ di tempo. Le teorie sono sempre belle, sulla carta, ma se non si progettano degli esperimenti per comprendere se sono vere o false, non servono a granché. Molti pensano che il cuore del mio lavoro sia quello di aiutare le persone e le aziende a migliorare, ma non posso dire che questo sia del tutto vero per me. Certo, è un aspetto importante e centrale, ma la cosa più appagante per me è studiare, sperimentare, scoprire. Insomma, nutrire la mia curiosità fuori controllo.

Neil DeGrasse Tyson, forse il più famoso divulgatore americano, paragona la conoscenza a un cerchio, in cui l’essere umano è posizionato al centro. Ogni nuova scoperta aumenta la dimensione del cerchio, ma così facendo ne aumenta anche la circonferenza, ovvero il suo orizzonte. La metafora serve a spiegare che più aumenta la nostra conoscenza, più aumenta anche l’orizzonte con ciò che ancora non comprendiamo. E per questo la nostra curiosità non sarà mai, veramente, soddisfatta.

L’ho sempre sostenuto, in effetti: la vita del curioso è fondamentalmente fatta di insoddisfazione costante. Se un curioso è pienamente soddisfatto della sua scoperta, allora non continuerà a cercare. Un po’ come chi crede nel concetto di perfezione. La perfezione è stasi, è il miglioramento ad essere movimento. Se Einstein avesse pensato che la relatività ristretta era una teoria perfetta avrebbe semplicemente smesso di cercare, e non sarebbe arrivato alla relatività generale, e poi oltre. Il che ci racconta che anche lui era una persona fondamentalmente insoddisfatta, incapace di accettare davvero ciò che aveva raggiunto, spinta sempre in avanti.

Curiosità e insoddisfazione sono due motori, potenti e complementari. La prima ti tira verso il futuro, la seconda ti spinge via dal presente. Il che ti può anche far uscire di testa, o se non altro far vivere una vita di sofferenza. Ma questo avviene solo se miri alla perfezione. Come ogni vero viaggiatore sa, infatti, il punto non è la destinazione, ma il viaggio in sé. Solo se si riesce ad accogliere questa visione del mondo nel proprio intimo si riesce a vivere con serenità il mutamento costante.

E a godersi il presente. Il viaggio. La ricerca continua.

Mi resta giusto il tempo di una veloce corsa in bagno, prima di iniziare a lavorare con il prossimo manager.

Lo Smart Working ai tempi del Coronavirus

Il computer si accende, iniziando a spargere luci led pulsate per tutto lo studio. Un vezzo da gamer che non ho mai capito, apparentemente non puoi comprare una scheda video di buon livello, senza l’illuminazione da Las Vegas che però fa figo e quindi va bene. Mentre aspetto guardo l’orologio del telefono che segna 23.23, ora fortunata.

Il feed di linkedin scorre davanti ai miei occhi, e io, sottovoce, impreco.

Cerco nella parte superiore dello schermo la pagina con il mio calendario editoriale. Ci sono decisamente troppe schede aperte nel mio browser, e devo girarne tre o quattro prima di trovare quella giusta. Ricordavo bene, l’argomento dell’ultimo mese è stato la Performance in azienda, quello della settimana è lo Smart Working. Torno su LinkedIn, dove uno dopo l’altro scorrono post taggati #coronavirus e #smartworking.

Smetto di tormentare la rotella del mio mouse, e iniziocon i miei capelli.

Valutiamo le opzioni.

Potrei cambiare argomento. Nessuno saprebbe mai nulla. Mi secca un po’, perché avevo davvero voglia di parlare di smart working questa settimana. Oppue potrei parlarne, con il rischio di scadere nello sciacallaggio mediatico, che è un po’ quello che stanno facendo tutti in questi giorni.

Un post cattura la mia attenzione.. Si chiede quanti di quelli che applicheranno il telelavoro in questi giorni lo manterranno a crisi passata. Ragiona sul fatto che molti che oggi sono paladini dello smart working fino a ieri lo rifiutavano per partito preso.

Più leggo, e più la sensazione che ho è che le persone, in generale non abbiano capito che cosa sia, davvero, lo smart working. Non l’imprenditore che pubblica il post dicendo che fa lavorare i dipendenti in smart working per una settimana. Né il nomade digitale con il suo mojito di fianco al portatile su una spiaggia tropicale.

Perché alla fine della giornata smart working non è lavorare da casa, come non è ferie illimitate od orari flessibili. In effetti, è tutte queste cose, e nessuna di esse. Perché lo smart working, quello vero, è più che altro uno stile organizzativo e aziendale, fatto di pricessi, e piccole migliorie, che in molti casi passano assolutamente inosservate.

In definitiva, si tratta di creare aziende a misura di persona, anziché persone a misura d’azienda.

Se parliamo di telelavoro, ad esempio, possiamo essere tentati dal dire che l’idea che le persone possano lavorare da casa anziché farsi ogni giorno ore imbottigliati del traffico sia sicuramente migliore, e smart. In realtà, a ragionarci un attimo, anche il telelavoro ha i suoi aspetti negativi: crea isolamento, e diluisce la cultura aziendale. Rende di fatto le persone reperibili costantemente, anche fuori dall’orario d’ufficio, e non ultimo scarica l’onere del curare l’ecosistema sul lavoratore. A pensarci, non è poca cosa: in azienda c’è qualcuno che (in teoria) si occupa di procurare sedie comode, e pulire i bagni ogni giorno. A casa quest’onere ricade tutto sul telelavoratore. Non c’è nulla di smart in questo.

Senza contare che, per funzionare bene, questo tipo di lavoro richiede un aumento esponenziale della comunicazione virtuale che, come è chiaro a chi come me studia fenomeni comunicativi, rende molto più facile che si creino situazioni di incomprensione e frainteso. Il che, naturalmente, non significa che il telelavoro sia sbagliato o dannoso, ma che l’introdurlo in modo forzato, ad esempio a causa di un’epidemia virale, creerà probabilmente più problemi di quelli che potrebbe risolvere, tanto che alcuni dei super generosi che hanno concesso lo smart working fino a quando l’epidemia non sarà rientrata, probabilmente, arriveranno a chiedersi perché non abbiano semplicemente chiuso l’azienda e mandato le persone in ferie per un paio di settimane.

Perché la verità è che lo smart working ai tempi del Coronavirus non è smart working. Alla fine, è solo l’ennesimo tacon peso del buso (pezza peggio del buco).

Ok, direi che qualcosa da scrivere ce l’ho. Mia figlia ora dorme, e le mie dita scorrono, veloci, sulla tastiera.

Anche io ho una parte intollerante

C’è una parola, in particolar modo, su cui vorrei ragionare oggi, ed è tolleranza.

Tolleranza è una parola di cui ci si riempie la bocca. Si dice che si deve essere tolleranti verso il diverso, verso gli errori degli altri, o anche verso i propri. La verità è che questa parola a me non piace, non mi piace per nulla, soprattutto quando viene usata nei confronti di una persona.

Perché la parola Tolleranza, nella sua radice etimologica ha a che fare con la sopportazione di un peso, di qualcosa di sgradevole. Ed ecco, questa cosa per me ha poco senso per due motivi. Il primo è collegato con le ragioni per cui si definisce una persona un peso. Spesso, infatti, si parla dell’importanza (?!?) di tollerare chi ha una diversa nazionalità, religione, sessualità. Insomma, è come se si considerasse una persona sgradevole per il solo fatto che esiste, ed è nata o è stata educata in un certo modo.. Il secondo è che se proprio sono infastidito da qualcosa o qualcuno, tendo a fare qualcosa per risolvere la situazione.

Questa, almeno è l’idea. E se non riesco davvero a tollerare (o non tollerare) una persona per il solo fatto di essere nata in un determinato paese del mondo, questo non significa che non ci siano cose che mi si infilano sotto la pelle, e fanno uscire fuori tutta la mia intolleranza, e la mia chiusura. Si tratta, in effetti, di tutti quei comportamenti che il buon Carlo Cipolla definirebbe stupidi.

Per chi non lo conoscesse, il professore in questione ha scritto un breve e interessantissimo saggio che va a definire il concetto di stupidità, Dice, in buona sostanza, che un comportamento può sia aiutare che danneggiare, e può farlo con se stessi e con gli altri. Possiamo, quindi, costruire un diagramma cartesiano usando questi due assi, in modo da ottenere quattro quadranti:

  • gli intelligenti sono coloro che con il loro comportamento creano vantaggi sia per se stessi che per gli altri
  • gli sfortunati, o disgraziati, sono coloro che aiutando gli altri danneggiano se stessi
  • i banditi, viceversa, sono coloro che creano valore per loro stessi, danneggiando gli altri
  • gli stupidi, infine, sono coloro che con il loro comportamento danneggiano sia loro stessi che gli altri

Ok, riformulo. L’unico contesto in cui mi sento usare la parola tolleranza è quello della stupidità. E mi accontento di questa parola se si tratta di stupidità accidentale. Tutti, alla fine, possiamo commettere degli errori, anche io l’ho fatto e lo faccio, ci mancherebbe. L’upgrade all’intolleranza lo faccio quando la stupidità è deliberata.

Chi va in bicicletta di fianco alla pista ciclabile mi rende intollerante.

Chi fa coda nel traffico facendo manovre azzardate, salvo restare comunque incastrato come tutti, mi rende intollerante.

Chi passa il tempo a lamentarsi delle sue disgrazie mi rende intollerante.

Il punto è che se con le persone che si comportano in modo intelligente è facile avere a che fare, e disgraziati e banditi si possono gestire con le giuste armi, davanti agli stupidi siamo totalmente inermi. D’altra parte, una famosa e purtroppo anonima massima ci ricorda che discutere con certe persone è come giocare a scacchi con un piccione. Puoi essere anche il campione del mondo ma il piccione farà cadere tutti i pezzi, cagherà sulla scacchiera e poi se ne andrà camminando impettito come se avesse vinto lui.

Sono loro, gli stupidi, quelli che fanno uscire la mia intolleranza vera. Quelli che quando li incontro posso solo arrabbiarmi, perché non so cos’altro fare, se non insultarli. E quindi, se sei uno stupido, ti ringrazio, perché fai uscire una parte di me che altrimenti non avrebbe ragione di esistere.

Mercoledì è un buon giorno per Invecchiare

Partiamo dalle cose ovvie, e meno interessanti: oggi compio 32 anni, quindi, ufficialmente, invecchio.

Stavo scrivendo un altro articolo, per oggi, ma visto che il mio compleanno cade in coincidenza con il mio articolo settimanale ho cambiato idea. Più che altro, come spesso capita in queste occasioni, mi sono fermato un po’ a riflettere. D’accordo, probabilmente capita solo a me.

Non sono uno che vive con grande anticipazione i compleanni. La vedo più come una scusa per trovarsi tutti insieme, mangiare e bere bene, e passare un po’ di tempo in compagnia. Ricordo che quando andavo al liceo, invece, era un conto alla rovescia a quel momento in cui sarei arrivato a 18, e sarei diventato un essere umano fatto e finito, almeno per la legge. Quel momento è passato e scivolato via. Un giorno mi sono svegliato, e mi sono accorto che non era cambiato nulla per me.

Ho, però, un ricordo antecedente che oggi, per qualche motivo, mi è tornato alla mente. Frequentavo la scuola media, e per un paio di mesi mi alzavo tutte le mattine con il terrore di invecchiare. Che è una cosa buffa, se ci si pensa. Un bimbo, a dodici anni, non è nemmeno ancora un adulto, e in tutta sincerità non ho idea di cosa avesse acceso quella fobia, se non il fatto che, per via del divorzio dei miei genitori, era un periodo un po’ di schifo, ma in tutta sincerità non sono nemmeno sicuro che le due cose siano collegate tra loro.

Non era tanto l’idea della morte che mi spaventava, quanto il pensiero che mi sarei avvicinato ad essa come un vecchio malato, incapace di muovermi, magari con i primi segni di demenza. Sentivo l’ansia per la fatica che avrei fatto a svolgere gesti quotidiani, come alzarmi da seduto, o andare da un posto all’altro sulle mie gambe.

Così com’era arrivata, quella sensazione sparì, e devo dire che, per quanto di tanto in tanto mi torni alla mente, ha completamente perso il suo potere, e ad oggi resta per me solo un ricordo buffo. Eppure, nonostante non sia certo in là con gli anni, una vita di sport hanno lasciato su di me qualche cicatrice, come una spalla lussata, un ginocchio che alle volta gioca qualche brutto scherzo, e una schiena che mi ha costretto per la prima volta ad andare dall’osteopata. Lo sport che pratico oggi è il Taiji, e l’età media della palestra è superiore ai 50 probabilmente solo perché ci sono io ad abbassarla. Fisicamente mi sento un vecchio rinsecchito, e la cosa mi fa ridere.

Mi fa ridere perché so di non esserlo, e se anche lo fossi non sarebbe un problema. Da molto tempo, infatti, ho semplicemente imparato ad accogliere il mio presente con gentilezza. E tutto sommato trovo che il mercoledì sia un buon giorno per invecchiare per me, quest’anno. Un giorno di intermezzo che si limita a scivolare via come se nulla fosse. Eppure, stamattina mia moglie si è alzata prima di me, e ha preparato i Waffles. Quando sono arrivato in cucina, mi ha fatto trovare un piccolo regalo: un portachiavi per l’auto nuova, della Lego, quello con la figura di Dart Vader.

Io allora mi sono girato verso mia figlia, che era sul seggiolone, e con la figurina in mano le ho detto “Sono tuo padre!

Non sono sicuro che abbia capito, però almeno si è messa a ridere.

La passione per la Scienza

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di Scienze. Quando frequentavo la scuola elementare questa passione nasceva dalla meraviglia per la pubblicità del Piccolo Chimico. Si è, però, riconfermata negli anni, e sono sempre stato catturato dal fascino di quella materia che cercava di spiegare la realtà, oltre alla mera osservazione diretta.

Nonostante questo, all’Università non finii a studiare Chimica o Fisica, come forse sarebbe stato naturale, ma rimasi incastrato a Ingegneria, pensando che le scienze applicate fossero un eccellente sbocco per me. Inutile dire che mi sbagliavo, e mi resi presto conto che quel tipo di studio era troppo metodico e quadrato per la mia mente che è, probabilmente, più caotica.

Finii così quasi per caso a studiare Economia, e per qualche insolita ragione mi piacque. Ricordo, però, il mio stupore, e soprattutto il mio scetticismo, quando mi approcciai all’esame di Microeconomia in cui il primo capitolo era dedicato alla spiegazione dell’Homo Oeconomicus, un essere astratto che prendeva decisioni in maniera perfettamente razionale. Ricordo che il libro divagava molto sul fatto che quella fosse certamente una semplificazione della realtà, ma che negli ultimi cento anni quella semplificazione era riuscita a descrivere in modo molto accurato i fenomeni economici, e in grande misura anche a prevederli (anche se quella tendenza si stava riducendo negli ultimi anni). E rimasi ancor più scettico quando compresi che su questa bestia mitologica era di fatto basata l’intera teoria economica.

Fu in quel momento che mi riavvicinai alla Scienza, da una prospettiva che nemmeno conoscevo: quella del metodo scientifico. Come poteva un intero libro, un intero corso di laurea, essere basato su ipotesi totalmente irrealistiche e false? Non serviva certo un genio per comprendere come se si parte da una ipotesi così semplificata da essere falsa, la teoria stessa potrà essere giusta solo per mera coincidenza.

Erano gli anni della grande crisi economica, e gente come Nassim Taleb scriveva libri tipo Il Cigno Nero, in cui sbugiardava alcune verità che erano ormai consolidate nel mondo dell’economia e della finanza. Io decisi di approfondire l’argomento, e approfittai della mia tesi triennale per documentarmi un po’ sul problema: approfondii il tema della ricerca scientifica in ambito economico, chiedendomi in modo quasi ozioso se l’economia possa essere considerata una scienza.

Quello che trovai mi stupì, anche se in qualche misura dovevo aspettarmelo: gli studi economici nella stragrande maggioranza dei casi sono del tutto privi di alcun metodo. Utilizzano in modo acritico la statistica per produrre risultati che confermano le tesi. In buona sostanza, hanno la stessa validità scientifica di un oroscopo di Paolo Fox.

Un po’ per questo rimasi scettico per molti anni su tante cose che venivano raccontate come scientifiche: se si scavava a fondo si scopriva che in realtà c’era ben poca scienza, solo un po’ di numeri ben organizzati. Nel tempo, però, qualche cosa che ha fondamento scientifico l’ho trovata, come i modelli che uso nel mio lavoro.

A margine, però, non posso che chiedermi se questa mia passione (ma chiamiamola pure ossessione) per la scienza abbia senso, oppure no. Ci sono tante tecniche lì fuori, tanti strumenti che funzionano nonostante non abbiano alcuna solida base scientifica. Ma questo non li rende meno efficaci.

La risposta che mi sono dato è che la scienza è il linguaggio che noi umani abbiamo inventato per descrivere, e prevedere la realtà. In quanto linguaggio, è certamente limitato e riesce a rappresentare solo una porzione soggettiva della realtà. Però, tra i tanti, è il più organizzato, ed efficace. Insomma, la scienza non è, per me, una verità assoluta fine a se stessa, ma uno strumento di analisi e di validazione importante.

Insomma, avrà i suoi limiti, ma in questo momento è lo strumento migliore che abbiamo.

Mi manca leggere

Da quando è nata mia figlia molte cose sono cambiate, per me.

E nella maggior parte dei casi sono cambiate in meglio. Ora la mia vita è decisamente più piena, e io sento di aver raggiunto un nuovo senso di completezza, nella mia famiglia. Alcune cose però, devo ammetterlo, della mia vita precedente mi mancano.

Il sonno, sicuramente, è una di quelle. Sono alcuni mesi che non ho una notte di sonno intera, e da quando è nata lei in generale una notte di sonno come la vorrei, o anche solo come ero abituato in passato. Una in cui vai a letto molto tardi, e ti svegli altrettanto tardi la mattina. Anche quando sono in trasferta per lavoro, ormai, mi sveglio verso le 4 di mattina immaginando il suono di mia figlia che piange di fianco a me.

Eppure, il sonno non è quella che mi manca di più. Certo, un po’ di sonno vero migliorerebbe notevolmente la qualità della mia vita, ma ormai sono abbastanza abituato a funzionare anche in questo modo, anche se sono convinto che quando mia figlia sarà un po’ più grande, e ricomincerà a dormire sistematicamente tutta la notte, io mi sentirò rinato.

Un’altra cosa che mi manca molto è la mia oretta di videogiochi prima di dormire. Sono alcuni mesi che il mio account Steam è dormiente, la sera sono semplicemente troppo stanco per accendere il mio buon vecchio Assassin’s Creed e fare una partita. Di solito mi limito ad attaccare Netflix, ed è morta lì. Anche questa cosa, però, sono convinto che a breve migliorerà: mia figlia sta diventando progressivamente più regolare nell’andare a letto, e quindi il mio tempo serale dedicato a me stesso aumenta.

Il lavoro, in effetti, non ne ha risentito granché. A parte il fatto che il punto focale del mio lavoro resta quello che svolgo con il cliente, in un modo o nell’altro riesco a ritagliarmi tutto il tempo che serve, senza sacrificare figlia e aziende domestiche, a curare tutto il mio backoffice.

Una cosa che non mi manca per nulla, invece, sono le serate fuori. Vuoi perché di tanto in tanto usciamo comunque, con bestia a seguito, vuoi perché in ogni caso non sono mai stato un grande animale notturno. Quello che ho scoperto è che se già quando ti sposi il tuo vecchio giro di amici storici più o meno sparisce, sostituito da coppie giovani, anche quando hai un figlio il tuo giro di frequentazione cambia. L’altra sera, ad esempio, io e mia moglie siamo andati a mangiare sushi con due amici che hanno un figlio di neanche 6 mesi più piccolo della nostra. Il locale ci aveva dedicato una saletta, che è stata prontamente dedicata a nursery per questi angioletti addormentati (sono angioletti solo finché dormono, altrimenti dopo le 9 di sera sono delle bestie immonde).

La cosa che mi manca davvero, invece, è la lettura. Prima di avere una figlia passavo quotidianamente molte ore a leggere, mentre oggi questa cosa è davvero difficile. Il mio momento prediletto per la lettura è sempre stato a letto, ma ora che mia figlia dorme accanto a me non si può stare con la luce accesa (ebbene sì, leggo ancora libri cartacei nonostante la mia preferenza sia spiccatamente per quelli digitali, che comunque non risolvono il problema della luce).

E leggere mentre lei gioca non è lo stesso: non è come perdersi in un libro, dimenticandosi del tempo, perché lei vicino chiede attenzioni, oppure si arrampica sul mobile della televisione, o infila le dita dentro i buchi delle prese.

Alla fine, però, mi sono reso conto che è solo questione di riorganizzare. La priorità indiscussa, ora, è mia figlia, ma per le piccole cose è giusto ritagliare dei piccoli spazi. Una cosa che ho notato, ad esempio, è che non ho più tempo per cazzeggiare. Non posso perdermi via a guardare video su facebook: ogni momento di ozio è prezioso, e va sfruttato in modo oziosamente ricco. Che per un pigro come me, voglio dire, è essenziale.